N. 1

Nancy, dicembre 1967

Miei cari Amici,
i miei superiori mi hanno chiesto di non dare alla famiglia di
cui vi avevo parlato la consistenza di un gruppo visibile: per poco
che sia, correrebbe sempre il rischio di assumere una struttura,
facendo così ombra a ciò che già esiste. Conservo tuttavia la li-
bertà di scrivervi delle lettere nelle quali cercherò di commentare,
il più concretamente possibile, i sette punti che avevamo scelto
come base (vedi ultima pagina). Vorrei che questi scritti mante-
nessero, malgrado tutto, un carattere il più personale e caloroso
possibile. Non esiterò quindi a far riferimento ai problemi, alle
prove… o alle gioie di ciascuno di voi.
Queste lettere saranno apprezzate soprattutto da coloro che
non ho la possibilità di incontrare spesso. A loro beneficio mi
piacerebbe fossero mensili, purtroppo non sono in grado di
prometterlo. In ogni caso non esitate a scrivermi, il più ampia-
mente e il più spesso possibile, le vostre reazioni alla lettura di
questi “appunti.” Ciò mi sarà di grande aiuto per la redazione dei
messaggi successivi e mi permetterà anche di assicurare un con-I sette punti di una spiritualità teresiana
tatto indiretto tra quelli che mi vedono spesso e quelli che mi ve-
dono di rado.
Vorrei che la presente lettera vi giungesse quale augurio di Na-
tale. Vi prego di considerarla come datata in quel giorno.
Secondo una suddivisione che penso di mantenere in seguito,
questo testo è composto di due parti: la prima, più spirituale, ver-
terà questa volta sulla preghiera, la seconda tratterà dei turba-
menti che travagliano attualmente la Chiesa, nella misura in cui vi
possono toccare.

I – Osservazioni pratiche sulla preghiera

Distinguerò quattro forme di preghiera:

1. Le preghiere vocali o liturgiche alle quali potete partecipare
in pubblico, oppure recitare in privato, per esempio a Messa (non
bisogna però confondere queste preghiere con la nozione di assi-
stere alla messa che comporta la recita delle preghiere comunita-
rie e soprattutto qualcos’altro di cui per il momento non parlo,
poiché esula dal nostro tema). Attenzione, non distinguo qui
preghiera comunitaria e preghiera personale: è sufficiente che la
preghiera sia vocale e comporti un aspetto di recita perché appar-
tenga a questa prima categoria.

2. L’esercizio della meditazione o dell’orazione. Questo eserci-
zio implica essenzialmente che per un certo tempo (ritornerò sulla durata auspicabile di questo tempo) ci si astenga da ogni altra
attività che non sia il raccoglimento e il mettersi alla presenza di
Dio. Durante questo tempo di raccoglimento si può fare ricorso
alla lettura del Vangelo o di certi testi spirituali, ad alcune pre-
ghiere vocali o alla meditazione propriamente detta, ma a condi-
zione che tutto sia utilizzato in modo del tutto libero al servizio
del mettersi alla presenza di Dio. In altri termini, non bisogna
che questo tempo degeneri in lettura, recita di preghiere o medi-
tazione teologica. La sua essenza è di un altro ordine e i mezzi
utilizzati per mettersi alla presenza di Dio devono restare dei
mezzi, perciò normalmente non devono occupare che una parte
limitata del tempo di orazione.
Si può benissimo fare orazione durante la Messa o qualsiasi al-
tro ufficio liturgico, nella misura in cui quest’ufficio, e la parteci-
pazione che esso esige, favoriscano in modo soggettivo il racco-
glimento della persona che desidera fare orazione. Se al contrario
l’ufficio liturgico non aiuta il raccoglimento, è evidente che si do-
vrà sacrificare l’orazione alla partecipazione richiesta dalla Chiesa.
Bisogna solo essere onesti e non pretendere di fare orazione du-
rante quel tempo.
L’influenza favorevole o sfavorevole di un ufficio o di un e-
sercizio comune sul raccoglimento interiore dipende essenzial-
mente dalle disposizioni e dalla chiamata di ciascuno. Non esiste
legge universale in quest’ambito, sebbene alcuni lo abbiano pre-
teso. Si può solo supporre che il raccoglimento sia tanto più faci-
le da ottenere, quanto meno attiva è la partecipazione fisica e
immaginativa richiesta al fedele, al religioso o al sacerdote. Anche
questa però non è una legge assoluta: personalmente preferisco,
ad esempio, concelebrare che presiedere una concelebrazione o
celebrare da solo: è una disposizione personale che non è neces-
sariamente quella di tutti.I sette punti di una spiritualità teresiana
Nel caso in cui si faccia orazione durante una cerimonia litur-
gica, è evidente che si deve fare e dire tutto ciò che la Chiesa ri-
chiede, ma non è affatto obbligatorio essere attenti al senso delle
parole che si pronunciano: basta essere alla presenza di Dio e fa-
re materialmente ciò che si deve fare.
Di conseguenza, ognuno deve decidere onestamente se la sua
partecipazione a un ufficio abbia, oppure no, valore di orazione.
Non specifico ancora in quale misura e per quanto tempo con-
venga fare orazione. Per prima cosa bisogna essere onesti e dire
pane al pane e vino al vino. Se si crede che il Signore richieda lo
sforzo dell’orazione, non bisogna immaginarsi di averlo compiu-
to per il semplice fatto di aver assistito a un ufficio, a meno che
non si sia realmente appurato che quest’ufficio favorisca il racco-
glimento che è caratteristico dell’orazione.

3. Mentre l’orazione implica, per definizione, una certa durata
e uno sforzo di perseveranza, lo slancio verso Dio è essenzial-
mente immediato e si traduce facilmente in quella che gli autori
spirituali dei secoli passati chiamavano orazione giaculatoria.
Questo moto interiore, che mi ripugna chiamare esercizio
benché possa essere necessario esercitarsi a farlo spesso, è im-
portante almeno quanto la pratica dell’orazione. Rispetto a
quest’ultima presenta il vantaggio di non richiedere del tempo
libero, nessuna astrazione dalle attività di questo mondo, nem-
meno una disposizione interiore favorevole al raccoglimento. Al
contrario, saranno spesso gli stati d’animo più tumultuosi, più
ossessivi, più dolorosi che si tradurranno più facilmente in richie-
ste d’aiuto e gemiti rivolti al Salvatore (o alla Vergine Maria, agli
Angeli custodi… a chi preferite voi, insomma!).

4. C’è un’ultima forma di preghiera, la più preziosa e la più
profonda, verso cui tutte le altre devono condurci. È la preghiera
permanente e più o meno cosciente di chi è abitato da Dio in
modo tale da non poter mai sfuggire completamente alla sua pre-
sa, anche psicologicamente. Questa forma di preghiera è essen-
zialmente un dono di Dio, ma la riceviamo solo a forza di perse-
verare nelle prime tre.
Chiunque si metta a pregare deve essere animato dal desiderio
di ricevere un tale dono, che è il desiderio di pregare rigorosa-
mente sempre, senza stancarsi mai, come dice il Vangelo. Su que-
sto punto non è possibile transigere; è solo il carattere del tutto
assoluto del nostro desiderio che ci autorizza e ci obbliga a non
scoraggiarci mai del mediocre successo dei nostri sforzi, in parti-
colare quando siamo assillati da qualche tentazione oppure risuc-
chiati, più o meno a lungo, in qualche turbine che rende impos-
sibile il raccoglimento.
Queste indicazioni riguardano tanto il primo (il tormento del
dono totale a Dio) quanto il quinto dei sette punti (la preghiera).
La vera ragione degli insuccessi nel campo della preghiera, è la
mancanza di assoluto nel nostro desiderio di Dio e nel nostro
donarci a Lui. In realtà questa è la ragione per cui chiamiamo in-
successo ciò che tale non è, mentre chiudiamo gli occhi davanti
al vero fallimento della nostra vita di preghiera.
Mi spiego. Il combattimento che costituisce la nostra ricerca o
la nostra fuga da Dio si situa sul piano del tutto intimo e invisibi-
le dell’intenzione che anima il nostro cuore. Coloro che hanno
veramente il desiderio di donarsi a Dio gemono a lungo di non
riuscirvi, e di fatto non vi riescono. Ma essi non gemerebbero se
non avessero il desiderio profondo e lancinante di donare tutto, e
questo desiderio è l’intenzione efficace che, in fin dei conti, deci-
de tutta la nostra vita e fa di noi dei figli e degli amici di Dio, non
degli stranieri e dei mercenari.I sette punti di una spiritualità teresiana
Coloro che hanno così donato tutto perché sono assetati, e
che sono assetati perché hanno donato tutto (sul piano
dell’intenzione), hanno facilmente l’impressione disperante di
fallire nel loro sforzo di preghiera e di raccoglimento, proprio
perché nel profondo di loro stessi vorrebbero che questo racco-
glimento fosse perpetuo, assoluto, divorante e definitivo come
un inabissarsi nell’oceano: ma ciò non è evidentemente di questa
terra. Per loro, questa “sconfitta” non è neanche più un insucces-
so, è un esilio senza nome, un’afflizione talvolta placata, ma fug-
gevolmente, una sete divorante e nello stesso tempo una speran-
za incontenibile che anima la loro gioia.
Al contrario, coloro che cercano di pregare volendo dare alla
preghiera “il suo posto,” un posto onesto, serio, d’onore, senza
desiderare veramente (coscientemente o meno) che questa pre-
ghiera invada tutto, spazzi via tutto e li trascini infine verso il de-
siderio di dissolversi nella morte per essere con Cristo; coloro
che cercano di riuscire a pregare in tal modo… non possono a-
vere successo, come d’altronde non possono neanche fallire, se
non ad un livello del tutto superficiale e molto meno importante
di quel che credono. Il loro vero insuccesso è altrove, a livello
intimo e consiste nel non capire che cosa vuol dire pregare se-
condo lo spirito del Vangelo che è rigorosamente totalitario.
Questo significa forse che la via della preghiera è preclusa a
coloro che non hanno ancora saputo donarsi completamente nel-
lo slancio che anima una vocazione religiosa?

Sarebbe doppiamente falso:

1. Perché l’ambito delle nostre intenzioni profonde è incon-
scio, e nessuno può sapere “se è degno di amore o di odio.”

2. Perché la preghiera è offerta ai peggiori peccatori come una
risorsa universale cui tutti sono invitati. Non ci si può comunica-
re senza intenzione retta e senza la speranza fondata di essere in
amicizia con Dio, ma per pregare non è nemmeno necessario a-
vere la fede.
E allora? Allora bisogna ritornare al primo dei sette punti.
Non possiamo conoscere a quale profondità si situa il nostro de-
siderio di Dio, né in quale misura vogliamo sinceramente donare
tutto, ma possiamo sempre considerare questo dono totale e pro-
fondo come il bene essenziale che domandiamo nella preghiera.
Non potendo sapere se abbiamo donato tutto, sia che ci sembri
di esserne ben lontani o, più ancora, che abbiamo l’impressione
(piuttosto pericolosa) di averlo già fatto, lo possiamo chiedere,
chiedere senza sosta… o chiedere di riuscire a chiederlo senza so-
sta: implorare che la preghiera ci sommerga come uno tsunami.
L’essenziale in questa vicenda è la perseveranza, unico frutto
visibile pressoché infallibile della profondità dei nostri desideri.
Per questo motivo i teologi considerano la perseveranza come
una delle qualità essenziali della preghiera sempre esaudita. Le
altre qualità consistono, in pratica, nel chiedere di essere invasi
dalla preghiera permanente.
Non possiamo conoscere il fondo del nostro cuore, ma pos-
siamo sapere che cosa significhi la perseveranza con sufficiente
chiarezza per sforzarci di praticarla e per verificare se la prati-
chiamo. La perseveranza non consiste nell’ignorare i cedimenti e
neppure i periodi di infedeltà, sebbene tenda evidentemente a
contrastarli. La perseveranza consiste essenzialmente nel ripren-
dere instancabilmente la strada qualunque cosa accada, dopo o-
gni tempesta o dopo ogni periodo d’indolenza. È la pazienza del
ragno che ricomincia eternamente la sua tela ogni volta che la
vede distrutta. È una tenacia segreta, intima e docile, agli antipodi
della testardaggine, della rigidità o dell’entusiasmo. La perseve-
ranza è una virtù fondamentalmente umile, e viceversa l’umiltà èI sette punti di una spiritualità teresiana
fondamentalmente perseverante, non si scoraggia mai. È sempre
l’orgoglio che si scoraggia, e lui solo.
Ma che fare se ci si sente orgogliosi? Riconoscere che ci sono
due uomini in noi e liberare con la preghiera il figlio di Dio che è
umile. Non appena un orgoglioso comincia a pregare con rettitu-
dine, e soprattutto chiede l’umiltà, ha già smesso d’essere orgo-
glioso. Che perseveri in questo sforzo e la partita sarà infallibil-
mente vinta. Non lo scoraggi, però, il ritorno più o meno fre-
quente dei suoi accessi d’orgoglio: questa tenacia nella speranza
sarà il più potente e il più efficace dei suoi atti d’umiltà.
Ciò che ho appena detto sull’orgoglio vale a maggior ragione
per tutti gli ostacoli meno gravi, per tutte le passioni e per tutti i
tradimenti che ci distolgono immancabilmente dalla preghiera. Se
anche il ritorno alla preghiera è immancabile, la vittoria è certa.
Non dirò di più per questa volta, perché ritengo che le basi
proposte siano la cosa più importante. Prima di sapere in che
modo pregare, è molto più importante sapere come “non stan-
carsi mai,” come non scoraggiarsi mai. Tutti i consigli che vi po-
trei dare e tutti quelli che vi dà la Chiesa non vi libereranno
dall’impressione di non esser capaci di pregare. Anzi,
quest’impressione aumenta con la profondità stessa della pre-
ghiera e San Paolo è il primo a riconoscere che noi non sappia-
mo pregare e non sappiamo nemmeno cosa bisogna chiedere.
Non si tratta dunque di liberarsi da una tale impressione: sarebbe
come mettersi alla ricerca di uno stato di soddisfazione partico-
larmente pericoloso e vicino al fariseismo. Si tratta invece di sco-
prire progressivamente ciò che Dio ci chiede, con una tale finez-
za d’intuito da non preoccuparsi neanche più di capire se si prega
bene o male, trascinati dal desiderio che la preghiera invada tutto:
non la nostra preghiera, ma questa realtà che viene da Dio e che
è la preghiera di Dio in noi, il gemito inesprimibile dello Spirito
Santo…

 

II – Problemi di Chiesa e di fede

Non dirò molte cose oggi, vorrei soltanto confortare chi sof-
fre della situazione attuale. Mi sembra difficile non soffrirne, pur
rallegrandosi della “nuova Pentecoste scaturita dal Vaticano II.”
Confesso di non amare molto quest’espressione: la Pentecoste
continua senza mai cessare da duemila anni, visto che coincide
con il mistero stesso della Chiesa. Che ci siano ore di grazia più
intensa, lo credo, ma bisogna essere molto prudenti prima di af-
fermare che si tratta di quest’ora o di quest’altra, tanto più che
ogni effusione di grazia provoca una recrudescenza del mistero
di iniquità, una “reazione di rigetto” nei confronti di quel fer-
mento che l’uomo vecchio, presente in ciascuno di noi, non rie-
sce a tollerare (nel senso medico del termine).
Nella Chiesa di oggi c’è un’effusione di santità indiscutibile
per chi intravede il segreto dei cuori (e questa è una delle grazie
del sacerdote), un’effusione ancora più visibile del desiderio della
santità, una santità creatrice di forme nuove, capace di inventare
con audacia modalità carismatiche che possono ricordare la
Chiesa dei Corinzi. Ma i carismi dati a questa Chiesa (e alle altre)
erano accompagnati anche da un’effusione di falsi prodigi, di falsi
profeti e falsi dottori che consumarono fino all’ultimo le forze di
Paolo e di Giovanni. A quei tempi non c’era l’autorità ufficiale e
“rassicurante” del Papa, di Roma e del Sant’Uffizio, pronta a de-
finire con chiarezza e tempestività, nei confronti di ogni dottrina
temeraria, insegnata da una cattedra o pubblicata in un libro, non
solo ciò che è di fede, ma anche ciò che per prudenza è permesso
o vietato insegnare.
È evidente che la Chiesa del Vaticano II scuote il giogo di
questa tutela che il Papa stesso non osa più imporre e questo, in
effetti, ci riporta un po’ alla vitalità turbolenta, e talvolta inquie-
tante, della Chiesa primitiva. Se fossimo vissuti in quei tempi,I sette punti di una spiritualità teresiana
con la stessa mentalità che ci ritroviamo grazie agli insegnamenti
della Chiesa latina, saremmo forse inorriditi davanti alle pazzie
deliranti e contraddittorie insegnate un po’ dovunque con
l’insolenza di quei piccoli maestri cui San Paolo allude spesso e
contro i quali ha dovuto difendere violentemente la sua autorità
(vedi in particolare la Lettera ai Galati e le due Lettere ai Corinzi,
specialmente 2 Cor. 11, 21-23).
In venti secoli la Chiesa ha definito numerose verità. Questo è
un conforto che i primi cristiani non avevano perché, al pari delle
parole di Cristo, anche le parole solenni della Chiesa non passe-
ranno. Forse dobbiamo accettare che queste verità non siano co-
sì facilmente riconosciute e insegnate da tutti come lo erano una
volta, e che il Sant’Uffizio non compia sempre, in vece nostra, lo
sforzo di discernere il grano dalla zizzania in tutto quello che a-
scoltiamo o leggiamo. È molto penoso non avere più questa si-
curezza, ma se pensiamo alla situazione dei primi cristiani, do-
vremo riconoscere che erano affidati molto più di noi all’istinto
dello Spirito Santo per discernere la zizzania dal grano. Non
mancavano gli insegnamenti luminosi, ma nemmeno quelli per-
versi, ed era secondo l’istinto del proprio cuore che ciascuno do-
veva orientarsi liberamente verso la Verità o verso le “favole.”
Non bastava allora essere docili per trovare la verità, bisognava
che l’Amore, con le antenne che esso dà per riconoscere il sale e
le parole di Vita eterna, trascinasse verso questa Verità coloro
che avevano fame e sete dell’acqua viva promessa da Gesù. Tali
erano “l’istinto della fede” e la vox populi che donavano ai cristiani
l’infallibilità in credendo (il fiuto infallibile che “stana” l’eresia al
suo solo odore, ancor prima di sapere in che cosa sia eretica,
semplicemente perché soffoca il respiro delle virtù teologali), in-
fallibilità necessaria ma sufficiente per non fare naufragio in quel
mare agitato.
Il ritorno a una tale situazione, dopo i secoli rassicuranti di cui
ho parlato, dà a molti l’impressione che il terreno manchi sotto i
piedi… e li capisco, ma è un’impressione analoga a quella che su-
scitano, a livello della vita interiore, le purificazioni della notte
oscura. Bisogna passarci. In questa situazione, tanto più dolorosa
poiché le purificazioni sono sempre accompagnate dallo scate-
narsi del male, siamo tentati dal nostro pessimismo di scaricare
tutto sulle spalle di Satana: non possiamo credere che Dio voglia
cose simili, eppure… Dio non vuole la zizzania, ma vuole che la
sopportiamo e che la separiamo con pazienza dal buon grano.
Tuttavia, non vuole che ci lasciamo ingannare e che chiamia-
mo buon grano, effusione di una nuova Pentecoste, ciò che è
zizzania bella e buona: non vuole che si tolga sapore al sale della
dottrina evangelica e che si cambi il vino in acqua, il vino della
follia dell’amore per Cristo nell’acqua religiosa e insipida dei sa-
pienti e degli intelligenti. Ci chiede semplicemente uno sforzo
personale molto più intenso per compiere questo discernimento.
Non basta più “rimettersi alla Chiesa” ad occhi chiusi, bisogna
invece tenerli ben aperti per riconoscere i dottori che meritano di
essere ascoltati da quelli che meritano che ci si tappi le orecchie.
Questo sforzo alla fine sarà benefico per noi, perché ci costringe-
rà ad amare di più per discernere meglio.
Non si tratta affatto, come hanno creduto certi protestanti, di
lasciarsi istruire solamente dalla Bibbia e dallo Spirito Santo. Si
tratta sempre e ora più che mai di essere istruiti dalla Chiesa…
che cerco di rappresentare, in parte, presso di voi. È al vostro
istinto che spetta la cura di discernere in che misura io la rappre-
senti fedelmente, in mezzo a tante altre sirene più o meno ap-
provate, e mai formalmente condannate.
È tutto per oggi. Come ho già detto, le vostre reazioni saranno
decisive nell’orientare la redazione delle prossime lettere.I sette punti di una spiritualità teresiana
Che il Bambino Gesù venga nei vostri cuori per pacificarli re-
galmente al di là di tutte le pacificazioni umane… nel buio di que-
sta notte del mondo, che deve essere per noi la notte di Natale.

Fr. M.D. Molinié, o.p.

Elenco dei sette punti che possono servire come base per una
vita spirituale:

1. L’intuizione e il tormento di ciò che deve essere, o dovreb-
be essere, il dono totale a Dio. Dico l’intuizione o il tormento,
per puntualizzare che questo dono può essere stato fatto o no,
che lo si sta facendo oppure che lo si sta fuggendo. Ciò che con-
ta è l’accettazione leale, radicale e intrepida della più grande luci-
dità possibile a questo riguardo. Riconoscere che è il grande
compito della nostra vita e che tutto il resto è secondario o lette-
ratura. Accettare di essere tormentati da questa chiamata per tut-
ta la vita.

2. Come corollario, una preoccupazione assoluta di verità: non
costruirsi un volto, non presentarsi migliori di quello che si è,
non cercare di persuadere sé o gli altri che ciò che non è stato
fatto è fatto.

3. Altro corollario: nei rapporti con il prossimo, uno sforzo di
lealtà assoluta e di misericordia assoluta. È impossibile essere veri
se non ci si sa perdonati. Il Confiteor reciproco deve essere la
magna charta dei nostri rapporti e dei nostri dialoghi.

4. Il desiderio di una formazione dottrinale, ciascuno secondo
le proprie capacità, ma con l’amore per questa dimensione con-
templativa così violentemente rigettata o disprezzata da tanti cri-
stiani. Questa è una nota caratteristica della famiglia domenicana.

5. Il desiderio di imparare a pregare (avrei anche potuto met-
tere questo punto al primo posto: in realtà è al di fuori di ogni
classificazione).

6. Il desiderio efficace di comunicarsi il più spesso possibile.

7. Non oso dire niente, per il momento, sulla Vergine Maria e
su Teresa di Gesù Bambino, se non questo: non disinteressarsene
categoricamente e sistematicamente. Restare aperti a questa di-
mensione della vita cristiana almeno con un atto di fede.

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