Lettera n.13
La luce splende nelle tenebre
di Fr. M.D. Molinié, o.p.
Nancy, Natale 1972
Miei cari Amici,
la mia ultima lettera risale a un anno fa. Capisco che parecchi
di voi si siano preoccupati o abbiano avuto il timore di essere sta-
ti dimenticati nella distribuzione… Parecchie circostanze hanno
contribuito a questa carenza. Sarebbe noioso e d’altronde impos-
sibile elencarle tutte ma, considerando le cose con un certo di-
stacco, credo di poter cogliere il motivo principale di questa in-
terruzione.
Il 1972 è stato per me un anno di decantazione, a tutti i livelli.
Non soltanto queste lettere, ma anche la redazione dei ciclostilati
che devono seguire la serie intitolata Le Don de Dieu, hanno se-
gnato il passo. Ero infatti alla ricerca di qualcosa che non si è de-
lineato chiaramente ai miei occhi che nel mese di luglio. Poiché il
momento delle vacanze coincide col periodo dei ritiri, ho comin-
ciato a mettere per iscritto ciò che avevo intuito solo a partire dal
mese di Ottobre e ho dato la priorità a questo lavoro, anch’esso
molto in ritardo, visto che il cahier sulla Redenzione risale al 1970.
Ora che un primo abbozzo è stato fatto, torno a voi per porgervi
le mie scuse insieme agli auguri di Natale.
Quello che ho intravisto ha profondamente modificato il mio
sguardo sulla crisi attuale. Non saprei ancora spiegarlo molto
chiaramente, ci vogliono talora dei decenni perché l‟intelligenza
delle Scritture ci sia data su questo o quel punto essenziale, ma
devo cercare di dirvi di cosa si tratta, a costo di doverlo balbetta-
re, dato che io stesso non lo comprendo appieno.
Mi rendo oggi conto che lo shock del maggio del ’68 ci ha
immersi tutti in una specie di angoscia che andava ben oltre la
mediocrità apparente dell’evento. Quanto è successo nella Chiesa
a partire da quel momento si è iscritto spontaneamente nella li-
nea di una sorta di deflagrazione spirituale, percepita da alcuni
come la causa profonda, invisibile e particolarmente temibile di
un’evoluzione – o rivoluzione – di cui il maggio del ’68 è solo la
cristallizzazione più spettacolare. Per riferirmi a un fatto prece-
dente, vi confesserò di aver vissuto la morte del Presidente Ken-
nedy come un avvenimento nefasto, la cui portata andava oltre
quella di un fatto politico o di un intrigo poliziesco. Fin
dall’infanzia il mistero del Male mi ha preso alla gola con una tale
forza che per parecchi anni la mia fede cristiana non ha retto. Si-
curamente c’è voluta una luce potente perché tornassi a Gesù
Cristo ed entrassi nella vita religiosa, ma mi sembra di aver subi-
to, insieme a molti altri nel ’68, un nuovo assalto della tentazione
manichea, 87 generata sempre dallo spettacolo del Male quando si
scatena e viene percepito in profondità.
Mi rendo conto che le analisi proposte nelle mie lettere porta-
vano il “morso” di quella tentazione che spero non abbia supera-
to il morso al calcagno predetto dalla Genesi. Capisco anche me-
glio perché sono stato spesso rimproverato, anche nella mia pre-
dicazione, di presentare un quadro troppo “pessimista” o dram-
87 È la tentazione di Sant’Agostino: riconoscere al Male un potere quasi infinito in lotta contro il potere del Bene (anch’esso infinito).
matico della situazione della Chiesa e della vita umana in genera-
le. Del resto ho già scritto in una delle mie lettere che rimproveri
di questo genere riguardano molto di più la persona che le sue
parole o la sua dottrina; il clima generale dei suoi discorsi, più che
il loro contenuto: quello che ho chiamato musica in opposizione
alle parole.
Mi sembra dunque di intravedere ciò che mancava alla mia
“musica” per dare ai miei uditori e ai miei lettori tutto il conforto
(la consolazione nel senso alto del termine, quella del Paraclito)
che si potevano aspettare.
Se capisco questo, evidentemente sono un po’ cambiato, o
almeno spero. È molto difficile spiegare in cosa consista questo
cambiamento, d’altronde non è necessario: se è reale, ve ne ac-
corgerete da soli. Vi devo però una spiegazione sul mio silenzio e
non ne vedo altra che la preparazione, più o meno inconscia e
talora dolorosa, in ogni caso paralizzante, di questo cambiamen-
to. In questa lettera voglio tentare anche di chiarire in che modo
non è più lo stesso lo sguardo che rivolgo alla Chiesa e al progre-
dire di quella che il Cardinale Daniélou chiama, a ragione, una
decadenza. L’evidenza delle tenebre non è in me meno forte, an-
zi è più forte che mai: da questo punto di vista non avete da te-
mere, o da sperare, che metta acqua nel mio vino, quanto piutto-
sto, come diceva un giorno un mio confratello, che ci metta an-
cora vino… solo che è un vino di un’altra natura, che, come sento
meglio, supera le reazioni umane. L’ottimismo rassicurante in cui
si cullano tanti cristiani e in cui ci cullano tanti pastori rimane
una malattia molto pericolosa, contro cui bisogna lottare aprendo
gli occhi sulle stragi compiute dal lupo nell’ovile e fra gli stessi
pastori. Tra una tale rassicurazione che ci aspetta al varco in ogni
pagina della maggior parte delle pubblicazioni cosiddette cristiane
e l’angoscia più acuta, direi anche la più mortale, non bisogna esi-
tare a scegliere l’angoscia, perché essa malgrado i suoi evidenti
pericoli è certamente più vicina alla verità.
Quelli che si rassicurano, che ascoltano e ripetono discorsi
rassicuranti, mi fanno pensare a quell’uomo di cui parlava il Cu-
rato d’Ars: i gendarmi lo distraggono, lo fanno divertire fino
all’arrivo del cellulare. Nella mente del Curato d’Ars, il gendarme
era Satana.
Non aspettatevi perciò da me, meno che mai, delle parole ras-
sicuranti. Mi si dovrebbe scorticare la bocca prima di farmi into-
nare l’antifona di rigore “Sono ottimista.” No, non sono ottimi-
sta perché in questa parola non c’è dell’essere ma il nulla, non c’è
vita ma sonno. È il conforto di chi, cadendo dal quattordicesimo
piano, si dice arrivando al settimo: “Fin qui, tutto sommato, non
è andata male.” C’è più essere e più vita nell’angoscia che
nell’ottimismo, nella vita di chi chiede aiuto e cerca un po’
d’ossigeno, un po’ di conforto, un po’ di luce, mentre l’ottimista
non cerca la Verità, almeno non con quella violenza che gli fa-
rebbe troppo male, la sola che strappa a Dio la risposta data a
Giobbe.
Non sono ottimista, ma accade che non mi trovi più del tutto
nella stessa angoscia, in ogni caso non nello stesso modo. Pro-
prio perché non sono più nella stessa angoscia, scopro fino a che
punto vi ero immerso, fino a che punto da quattro anni siamo
stati scossi da una tempesta estremamente violenta. Non capisco
e non capirò mai quaggiù in quale modo la pace di Dio superi i
sentimenti umani, però mi sembra di intuire che è così… e nella
misura in cui lo intuisco maggiormente vedo chiaramente che
non lo capivo abbastanza, che non lo si capisce mai abbastanza.
Il vino dell’ansia deve essere sostituito da questo vino che è più
forte, non annacquato nell’ottimismo, ma irresistibile e schiac-
ciante come la gloria di Dio, parola che in ebraico significa peso,
densità di una presenza che scaccia ogni angoscia come il mistral
spazza il cielo della Camargue con la temibile potenza del suo
soffio. La gloria di Dio è un rullo compressore che appiattisce
letteralmente i nostri sentimenti umani (“Umiliatevi, dice San
Pietro, sotto la potente mano di Dio”). Quando la gloria si abbat-
te su di noi nell’oscurità della fede, è la “Pace:” quella che Gesù
ci dà nel modo che gli è proprio, che non è quello del mondo e
non fa compromessi con il mondo, con l‟ottimismo o con
l‟angoscia, ma al suo passaggio rade al suolo ogni cosa, spazza via
le agitazioni umane che sprofondano nella potenza delle grandi
acque dell‟Apocalisse.
Siamo in una situazione apocalittica. Ci siamo a partire da Ge-
sù Cristo, ma la cosa diventa sempre più evidente per coloro che
hanno occhi per vedere. Invece di farci paura, la luce di Dio ci
mostra che questo ci deve rassicurare… o meglio la luce stessa di
Dio ci rassicura al di là di ogni sicurezza umana, senza che pos-
siamo capire perché: ci fa stare in piedi senza che sappiamo co-
me, ci toglie l‟angoscia senza che noi sappiamo cos’è successo.
Perché restiamo deboli e miseri come eravamo prima.
Quando spunta una tale aurora, si osa appena crederci, perciò
non intonerò l’inno della Resurrezione. Al seguito di Teresa mi
rifiuto di proclamare, come Pietro, “Non ti rinnegherò;” mi sen-
to perfettamente incapace di far fronte alla minima ricaduta
nell’angoscia, ma non posso dire di trovarmici poiché, senza co-
noscerne il motivo (se non con gli occhi della fede), devo consta-
tare che non vi sono e che non sarei lontano dal cantare come gli
Orientali il mattino di Pasqua: “Alleluia! Cristo è veramente risor-
to!”
Più modestamente, oggi vi dirò che il Salvatore è nato per noi,
non dice ancora niente ma è qui, in mezzo alla notte del mondo e
della Chiesa. È sufficiente sapere che è qui, non per esserne per-
suasi ripetendolo in continuazione in tutti i modi, ma perché è
veramente qui, è così e non possiamo farci niente, non si può
cancellare la sua presenza più di quanto non si poteva cancellare
l’angoscia della sua assenza. Credo proprio che questo basti: non
c’è bisogno di chiedergli di parlare o di obbligarlo a svegliarsi,
perché dorme nella barca squassata dalla tempesta. È qui e questa
è la gioia di Natale, la più modesta e la più timida che ci sia, quel-
la che non osa dire che siamo già salvi, perché tutti i pericoli so-
no più temibili che mai, e noi lo sappiamo bene, ma è impossibile
spegnere in noi la certezza inconfessabile e inespressa, indicibile
anche sottovoce, che tutto è già fatto e la luce del Risorto si na-
sconde nel silenzio, con Maria, nel profondo del Presepe.
Fr. M.D. Molinié, o.p.
P.S. Aggiungo a questa lettera un articolo che mi è stato chie-
sto da France Dominicaine. È un articolo dal tono trionfale, a para-
gone di ciò che vi ho appena detto, e che completerà felicemente
il sussurro di Gioia forse troppo discreto che ho voluto farvi sen-
tire.
I CONTEMPLATIVI NELLA CHIESA
C‟è sempre stato un solo contemplativo: Gesù Cristo. Egli ha
contemplato le nostre tenebre nella luce della gloria di Dio, la
nostra durezza nella luce della dolcezza di Dio, la nostra miseria
nella luce della Misericordia… e ne è morto. Ci ha dato nella Pen-
tecoste il potere di diventare Figli di Dio, simili a Lui, umanità in
sovrappiù che prolunga la sua umanità, pienezza del suo Corpo
mistico che completa nel nostro corpo ciò che manca alla sua
Passione… e dunque alla sua contemplazione.
Si dimentica troppo spesso che la contemplazione cristiana
non è, al modo di Platone, una dialettica ascendente che si eleva
verso Dio a partire dal mondo, ma la contemplazione vissuta da
Dio stesso che è sconvolto nelle sue viscere dallo spettacolo della
nostra miseria e si abbassa verso di noi nel movimento
dell‟Incarnazione. Prima di Gesù o al di fuori di Lui, molti con-
templativi hanno potuto distaccarsi in maniera autentica dalle
passioni del mondo per perdersi nella contemplazione, ma dopo
Gesù Cristo non abbiamo bisogno di cercare Dio in questo mo-
do, è Lui che cerca noi e ci vuole portare nella sua contemplazio-
ne crocifissa.
È evidente, infatti, che l‟uomo crocifigge in permanenza Dio
nel suo cuore, e l‟evento del Venerdì Santo non è che
l‟incarnazione cruenta e momentanea di questa crocifissione per-
petua. Lasciandosi crocifiggere dalle tenebre, Dio trionfa su di
esse infallibilmente secondo un segreto che Gli è proprio e che
nessuno può imitare, salvo coloro a cui è dato… e cioè i cristiani,
coloro che vanno fino in fondo nell‟iniziazione offerta dalla Pen-
tecoste attraverso i sacramenti.
Dio trionfa sulle tenebre contemplandole con amore. È que-
sto il suo segreto e la sua maniera unica di essere vincitore: “Ciò
che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di
uomo.” La Risurrezione proclama questa vittoria, ottenuta per il
solo fatto che Gesù ha rifiutato fino all‟ultimo di difendersi e ha
contemplato fino all‟ultimo i suoi carnefici con quello sguardo di
una dolcezza insopportabile che ancora nel secolo ventesimo Pa-
dre Kolbe rivolgeva ai carnefici di Auschwitz, e che li obbligava a
supplicarlo di non guardarli così… di non contemplarli con quella
contemplazione che è già la vittoria di Dio.
Capisco che i cristiani abbiano paura di lasciarsi trasportare da
una tale contemplazione, perché questa contemplazione è la Cro-
ce stessa, inaccessibile alla debolezza umana, ma ancor più in-sopportabile alle pretese, alle illusioni e ai compiacimenti che
questa luce polverizza tanto inesorabilmente quanto un forno
crematorio. Ho paura anch’io di questa contemplazione e passo il
tempo a fuggire Colui che m’insegue. Ma non è una ragione per
giustificare questa fuga, presentandola come una ricerca ed ela-
borando giustificazioni teologiche del nostro tradimento.
È certamente doloroso per il cuore di Dio che ci siano così
pochi contemplativi cristiani… doloroso ma per niente allarmante
dal punto di vista della sua vittoria, che è di ordine apocalittico, e
non ha niente a vedere con le statistiche. In realtà ci sono molti
più contemplativi di quanto non si creda, ma è essenziale alla lo-
ro contemplazione essere nascosta o crocifissa, in ogni caso in-
compresa e disprezzata, perfino sconosciuta. Chi si ferma a que-
sto e se ne lascia turbare merita di sentirsi dire, come Marta da
Gesù Cristo: “Ti agiti e ti preoccupi per molte cose, ma una sola
è necessaria.” Non è necessario essere capiti, seguiti, imitati. Chi
rinuncia a “irradiare” perché posseduto dalla contemplazione
della Croce riceve ben presto cento volte tanto per poi irradiare
anche troppo per i suoi gusti… come nel caso di tutti i fondatori
monastici, per esempio San Bernardo.
Ci sono dei contemplativi consapevoli e dei contemplativi in-
consapevoli. I primi sono relativamente rari, lo sono sempre stati
e forse, comunque si pensi, oggi sono più numerosi che mai. Il
Priore di una Trappa mi diceva, molto prima della crisi attuale:
“Se ci sono tre contemplativi nella mia abbazia, non è male: è
una buona abbazia.” Questi contemplativi consapevoli non sono
sempre ufficiali, e i contemplativi ufficiali non sono sempre con-
sapevoli.
I contemplativi inconsapevoli sono incalcolabili: sono tutti i
“poveri di Jahvé,” schiacciati, senza capirci niente, dalla crudeltà
dei potenti e dal peso di un mondo indurito. Essi attraversano la
vita facendo inconsapevolmente ciò che le Carmelitane (per esempio) dovrebbero fare consapevolmente: orientarsi verso la
morte di Gesù che sola dà senso alla vita, inghiottendoci progres-
sivamente nel mistero pasquale attraverso la pratica quotidiana,
talora dolce e spesso disperante, della carità fraterna. Quando si
guarda in questa luce la miseria indicibile dei popoli sottosvilup-
pati e la persecuzione parimenti indicibile subita dai cristiani nei
paesi totalitari, si sente che lo Spirito Santo ci invita a guardare
questo orrore come San Leone invitava i cristiani a guardare la
Croce di Cristo: nella speranza vibrante e illimitata della fede.
Quando questa speranza ci coglie, è il mondo occidentale a sem-
brare sinistro e quasi l‟anticamera dell‟inferno.
In questo inferno cercano di vivere nascosti i contemplativi
consapevoli che una persecuzione subdola, molto più pericolosa
della persecuzione brutale dei paesi totalitari, cerca di dissolverli.
Il modello di tali contemplativi, dopo Gesù Cristo ed evidente-
mente la Madonna, resta, per il ventesimo secolo, Teresa di Gesù
Bambino. Il contemplativo consapevole è, infatti, colui che dopo
aver agito per amore o essere tentato di agire per amore, com-
prende che l’amore stesso è più divorante e consuma più rapi-
damente dell‟azione ispirata dall’amore: affascinato da questo mi-
stero, diventa incapace di fare altro. I contemplativi vivono la
stessa vita degli altri cristiani, è lo stesso amore che scorre in loro
con gli stessi desideri, solo che questo amore è vissuto nei loro
cuori a un tale grado d’incandescenza che diventa luminoso e ca-
pace di polarizzare tutta una vita: in loro la colonna di nube di-
venta una colonna di fuoco. “È nel portare tutto
all‟incandescenza che consiste la mia idea,” diceva Dostoevskij: la
vita contemplativa è l‟ incandescenza di ciò che costituisce il
fondo di tutta la vita cristiana, e nient‟altro.
Non solo il contemplativo non si disinteressa all‟azione, ma è
un amore eccessivo dell‟azione che lo spinge a rinunciarvi a favo-
re di un’intensità maggiore. Come diceva Teresa di Gesù Bambi-
no:
Sento in me altre vocazioni, mi sento la vocazione
di guerriero, di sacerdote, di apostolo, di Dottore, di
martire… Sento in me la vocazione di sacerdote; con
quanto amore, o Gesù, ti porterei nelle mie mani
quando, alla mia voce, discendessi dal Cielo… Con
quanto amore ti darei alle anime!… Ma, ahimè, pur
desiderando di essere Sacerdote, ammiro e invidio
l‟umiltà di San Francesco d‟Assisi e mi sento la vo-
cazione di imitarlo rifiutando la sublime dignità del
Sacerdozio…. Come conciliare questi contrasti ?…
Vorrei illuminare come i Profeti, i Dottori, ho la vo-
cazione di essere Apostolo… vorrei percorrere la ter-
ra, predicare il tuo nome e piantare sul suolo infede-
le la tua Croce gloriosa, ma una sola missione non
mi basterebbe, vorrei al tempo stesso annunciare il
Vangelo nelle cinque parti del mondo e fino nelle
isole più lontane… Vorrei essere missionaria non so-
lo per qualche anno, ma vorrei esserlo stata dalla
creazione del mondo ed esserlo fino alla consuma-
zione dei secoli… Ma vorrei soprattutto, o mio Ama-
to Salvatore, vorrei versare il sangue per te fino
all’ultima goccia…
“Il Martirio: ecco il sogno della mia giovinezza!
Questo sogno è cresciuto con me dentro il chiostro
del Carmelo… Ma anche qui, sento che il mio sogno
è una follia, perché non saprei limitarmi a desiderare
un genere di martirio… Per soddisfarmi mi ci vor-
rebbero tutti… considerando i tormenti che tocche-
ranno in sorte ai cristiani al tempo dell‟Anticristo,
mi sento trasalire il cuore e vorrei che quei tormenti
fossero riservati a me…
… I miei desideri mi facevano soffrire un vero e
proprio martirio… Considerando il corpo mistico
della Chiesa, non mi ero riconosciuta in nessuno dei
membri descritti da San Paolo: o meglio, volevo ri-
conoscermi in tutti… La Carità mi diede la chiave
della mia vocazione. Capii che se la Chiesa aveva un
corpo, composto da diverse membra, il più necessa-
rio, il più nobile di tutti non le mancava: capii che la
Chiesa aveva un Cuore e che questo Cuore era acce-
so d’Amore. Capii che solo l‟Amore faceva agire le
membra della Chiesa: che se l’Amore si dovesse
spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il
Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro
sangue… Capii che l‟Amore racchiudeva tutte le Vo-
cazioni, che l‟Amore era tutto, che abbracciava tutti
i tempi e tutti i luoghi!… Insomma che è eterno!…
Allora, nell‟eccesso della mia gioia delirante ho e-
sclamato: O Gesù mio Amore… la mia vocazione
l‟ho trovata finalmente! La mia vocazione è
l‟Amore! …
Non c’è quindi che una differenza di gradazione tra il cristiano
generoso e il contemplativo, ma si tratta di quel grado che distin-
gue il calore oscuro dal calore luminoso nel preciso istante in cui
i corpi prendono fuoco. L’amore che anima tutti i cristiani diven-
ta allora per il contemplativo quel faro luminoso di cui parla Te-
resa, e della cui fiamma desidera come lei impadronirsi.
Tutto ciò per dire quale fraternità straordinaria dovrebbe es-
serci tra i contemplativi e i cristiani del mondo. Prima di tutto
perché i contemplativi vorrebbero compiere le opere dei fedeli e
rinunciano a farlo per la violenza stessa dell‟amore che alimenta il
loro desiderio… quindi perché i fedeli sono già trasportati dal
fuoco che consuma i contemplativi e questi ultimi desiderano
appassionatamente che lo sappiano.
I contemplativi abbandonano i piaceri e le agitazioni del mon-
do, ma per meglio ascoltare la sofferenza da cui non vogliono La luce splende nelle tenebre
lasciarsi distogliere. Sperimentano nel proprio cuore le tenebre
che ci separano da Dio e la loro grande tentazione, come confes-
sava il Curato d’Ars, non è il compiacimento, ma la disperazione.
Così fra tutte le realtà del mondo, i contemplativi sono in sinto-
nia solo con le sofferenze più estreme, quelle per cui nessuno
può far più niente e che hanno superato la soglia oltre la quale si
entra in una sorta di monastero della sofferenza: campi di con-
centramento, follia, bambini martiri, agonizzanti… senza parlare
delle lacerazioni invisibili su cui gli uomini d‟azione non possono
indugiare molto.
Come è possibile? Proprio a causa del silenzio, dell’amore e
della Gioia. Il silenzio, nell’ascoltare Dio, può ascoltare il mondo
meglio di quanto il mondo non ascolti se stesso, e scoprire in
quelle tenebre le sole grida che meritino di essere accolte, e cioè
quelle vere. La preghiera può ascoltare delle sofferenze abissali
perché ascolta la gioia di Dio che è abissale.
Non dobbiamo però credere che i contemplativi siano migliori
degli altri. Anzi, se dovessi dire che cos’è innanzitutto un con-
templativo, risponderei: un peccatore che ha coscienza di esserlo,
una coscienza portata all’incandescenza come l’amore stesso per-
ché essa si forma alla luce di Dio. Lungi dal portare a una vita
straordinaria, questa coscienza bruciante lo immerge nella mono-
tonia di una “vita umile dai lavori semplici e noiosi.” Chi ha oc-
chi per vedere e orecchi per intendere prova un certo brivido da-
vanti a quel salto nel vuoto che è l‟entrata nella vita religiosa e la
scomparsa nella luce di coloro che un chiostro sottrae per sem-
pre ai nostri sguardi. Quali che siano le debolezze e i tradimenti
che potranno seguire e malgrado il piccolo numero di anime re-
almente contemplative all’interno dei monasteri, è questo un ge-
sto abbastanza folle da autorizzarmi a parlare d’incandescenza.
Questo addio umile e silenzioso ci grida più violentemente di
ogni parola: “Per suo amore, ho tutto perduto… Voi, voi siete
sapienti in Cristo ma noi, noi siamo folli in Cristo.”