Il Vangelo della gioia
testo di Louis Evely
dal titolo
“Il vangelo della gioia”.
La religione cristiana è una religione di gioia.Il Vangelo è una Buona
Novella e, nonostante il nostro aspetto un po’ funebre, noi siamo dei
messaggeri di gioia, dei testimoni della Resurrezione. La gioia è un
comando del Cristo: “Se mi amaste, vi rallegrereste…..” “No, non vi
lascerò orfani, ritornerò a voi…” Il Cristo ci ha fatto depositari
della sua gioia. Che ne abbiamo fatto della Sua gioia? E’ strano, non
ci sentiamo intonati a questa gioia. La maggior parte dei cristiani
sono molto più portati ad affliggersi col Cristo che a rallegrarsi in
Lui e ignora che vi sono due quaresime. A partire da Pasqua, comincia
una seconda “Quaresima” che è interamente di istituzione divina e che
dura 50 giorni (fino a Pentecoste) per cercare di svegliarci alla gioia.
Sul Calvario c’erano ancora alcuni fedeli, ma alla resurrezione non
c’era più nessuno; nessuno più credeva, eran tutti disperati, Gesù ha
dovuto convertirli uno a uno alla realtà della sua gioia.
Senza dubbio la gioia cristiana non è un facile accontentarsi, un’ingenua soddisfazione di sé e “neppure degli altri. E’ una tristezza superata. La gioia cristiana esplode nelle Beatitudini: Beati i poveri, di essi è il Regno di Dio! Beati quelli che piangono! Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia! Beati i perseguitati! Attenzione, però: quando si proclamano queste Beatitudini in un’assemblea cristiana, avviene in generale una deformazione caratteristica del male che stiamo denunciando : la maggior parte dei presenti conclude: « Bene, devo diventar povero, devo aver fame e sete ed essere perseguitato ». Ma no, dimenticate proprio l’essenziale! Dovete essere felici, un disgraziato felice! Cercate di capire: se siete felici perché tutto va sulle rotelle, se siete un felice ricco, non siete certamente un segno di Dio, non rendete testimonianza a nessuno, non annunciate proprio nulla di straordinario. E se siete un infelice povero, un infelice malato, un infelice perseguitato, anche così non insegnate niente di nuovo. Oh, non è che io vi biasimi o vi getti una pietra: vi capisco, siamo tutti così secondo le circostanze. Ma è certo che in tal modo non stupite nessuno. Non rendete testimonianza a Dio. Se invece siete un felice povero, un felice disgraziato, un felice incompreso e perseguitato allora, ecco, dovete certo avere incontrato qualcuno che vi ha concesso di portare in questo modo la vostra miseria, qualcuno così buono, così pieno di comprensione e di amore per voi da permettervi di essere felice anche nella persecuzione. Allora rendete veramente testimonianza a Dio, allora fate una cosa straordinaria: rivelate la presenza e l’azione di un Altro: siete pieni della sua gioia
“Tutta la rivelazione c’insegna che Dio non è come noi e che non bisogna consultare, per sapere ciò che Egli prova a nostro riguardo, ciò che noi sentiamo a riguardo suo; che Dio è buono anche se noi siamo cattivi, che Dio ci ama anche se noi non l’amiamo, che Dio ci ha amati per primo. Quando Dio si è rivelato, ha lacerato tutti i veli, ha scavalcato tutti i limiti, ha abbagliato,ha sbalordito tutto il mondo. Quando Dio si è mostrato Dio, c’è stata una rivelazione di gioia.
Dio era infinitamente migliore di quanto avessero creduto. Dio era giovane, pieno di tenerezza, amabile, infinitamente buono, indulgente, audace, comprensivo, gaio, fanciullo, felice. Dio era Dio! Si aspettava un giudice, un vendicatore, un carnefice, e nasceva un bambino. Ci si preparava a una resa di conti, ci si disponeva a « mettersi in regola con Dio », e un bambino ci tendeva le braccia, chiedeva amore, protezione, tenerezza. Tutta la fiducia che noi non avevamo mai osato riporre in Dio, Egli la riponeva in noi. Il Vangelo incomincia con un’immensa allegrezza. Sono annunci, promesse, miracoli, chiamate: uno stupore continuo. Il mondo è messo sossopra; ciascuno riceve infinitamente di più di quanto aveva creduto che fosse possibile. Elisabetta, la sterile, ha un figlio. Zaccaria, l’incredulo, profetizza. La Vergine diventa Madre .I pastori conversano con gli angeli; i Magi danno tutto ciò che hanno; Simeone non ha più paura di morire. Ciò che bisognava anzitutto sapere, il messaggio che più urgeva accogliere, la scoperta che più s’imponeva, era che Dio non era ciò che avevamo creduto, che Dio era infinitamente più buono, infinitamente più pieno di amore, infinitamente più estasiante, più meraviglioso di quanto avessimo mai pensato.
La nostra anima ha bisogno di Dio. II nostro più grande errore è di credere che ci manchi sempre solo qualche cosa, una piccola cosa, per essere felici: un po’ di denaro, una promozione, un po’ di fortuna, la guarigione da qualche male, la fine di un’attesa, il superamento di un brutto momento. Ma in tal caso non saremo mai felici, perché verrà sempre un’altra malattia, un’altra attesa, un altro bisogno. È Dio che ci manca, è Dio « ciò » che ci manca; e non è Lui che ci manca: siamo noi che manchiamo a Lui. La felicità è già cominciata. Bisogna essere felici immediatamente, assolutamente, in questo momento stesso, o non lo saremo mai. La vita eterna, è di conoscere il Padre e di conoscere Colui che Egli ci ha mandato. Gesù, Uomo-Dio. Questa vita eterna comincia fin d’ora, così come la gioia di cui è sorgente. Noi siamo i contemporanei del Cristo, siamo fin d’ora partecipi della sua vita, invitati alle sue Beatitudini. Abbiamo la vocazione alla gioia.” ……
Bisogna morire a noi stessi proprio là dove ci sentiamo più pieni di vita: il nostro io ansioso, agitato, incosciente, triste, peccatore e bisogna imparare a vivere là dove non ci sentiamo che troppo morti: in quel recesso del nostro io dove Dio parla, Dio agisce, Dio ci ama. Cerchiamo di fare questo « passaggio » assimilando le esperienze di coloro che l’hanno incontrato.
Seconda Stazione di gioia: Apparizione ai pellegrini di Emmaus
Siete pronti? Siete disposti a starvene in silenzio, a stazionare, a non andare avanti fino a che la parola di Dio ci abbia fatto morire e vivere, fino a che ci abbia svegliato alla sua gioia?
« In quel medesimo giorno ecco che due discepoli se ne andavano verso un villaggio detto Emmaus, distante sessanta stadi da Gerusalemme, e discorrevano fra loro di tutti questi avvenimenti. Ora, mentre parlavano e discutevano insieme, ecco che Gesù si avvicinò e si unì a loro. Ma i loro occhi erano impediti di riconoscerlo » (Le. 24, 13 sgg.). Ci siete? Vi siete riconosciuti? Sapete chi è che se ne va così solitario, ruminando le proprie illusioni perdute? E sapete chi è che cammina accanto a voi senza farsi riconoscere? Chi è tanto vicino a voi nel momento in cui lo piangete?
« E domandò loro: Di che cosa state parlando fra voi cammin facendo e siete così tristi? ». Ecco il rimprovero di Dio agli uomini: Come siete tardi! Come siete lenti! I discepoli di Emmaus sono due che avevano creduto di credere, che avevano creduto di sperare, ma che al primo urto, scoraggiati, son stati gettati a ferra e, come molti di noi, si trascinano ora avanti in solitudine. Rendiamoci però conto della differenza: loro sono tristi perché lo credono morto e noi siamo tristi pur credendolo vivo!Il che ci fa comprendere che la nostra fede nella Resurrezione del Signore, nella sua Ascensione e nel suo essere alla destra del Padre equivale, praticamente, a crederlo morto!
A poco a poco la loro mente si è aperta e hanno capito che questa presenza di Dio all’uomo, questa presenza di Dio attraverso tutta la storia del mondo, aveva toccato l’apice, il punto culminante della sua manifestazione lì davanti a essi, per loro, sotto i loro occhi, nel momento stesso in cui si erano creduti irrimediabilmente perduti e abbandonati! Si sono svegliati, si son sentiti riscaldati, sconvolti, si son lasciati lavorare dalla parola di Dio: « Beati quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica… ». Ecco che senza aver ancora riconosciuto il Signore, questa parola li fa agire a suo riguardo come se l’avessero già riconosciuto. La parola di Dio è efficace! Non ne hanno ancora chiara coscienza, non cercano ancora la causa di questo ardore del cuore, ma se ne lasciano guidare, gli obbediscono: « Resta con noi, perché si fa tardi, e il giorno sta per finire ». Ed Egli entrò per restare con loro. Nessuno è più docile, più tenero, più disponibile del Signore. Nessuno vi accompagna a questo modo, nessuno vi compare davanti più volentieri, nessuno resta più fedelmente accanto a voi. « Ora, mentre si trovava a tavola con essi, prese il pane, lo benedì e, spezzandolo, lo porse ai due. I loro occhi allora si aprirono e lo riconobbero, ma egli era sparito ai loro sguardi. E si dissero l’un l’altro: ‘Non ci sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi mentre ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?’ ». Come capite voi questo testo? Credete che sia stato Gesù a trasformarsi, a riprendere il suo volto di un tempo? In tal caso non hanno cambiato loro: sono rimasti nella loro stoltezza e tardità di cuore se l’hanno riconosciuto coi sensi. Se è il Signore che si è reso visibile, non son stati loro a diventar sensibili a Dio. Se l’hanno riconosciuto dalla carne e dal sangue hanno potuto restare carne e sangue, estranei al regno di Dio. No, è accaduto qualcosa di molto diverso. Quando si son trovati a tavola con quest’ospite ancora sconosciuto ma che aveva tanto potere sul loro cuore, che parlava con tanta autorità delle Scritture, che li riprendeva con la stessa affettuosa impazienza con la quale un tempo erano stati tante volte ripresi, ecco che Egli si è levato in mezzo a loro — come noi vediamo ogni mattina alla Messa qualcuno levarsi in mezzo a noi — e hanno visto questo forestiero benedire e spezzare il pane con l’autorità del Maestro e del Padre. Allora, l’emozione non più contenuta si è riversata dal cuore nella mente stupefatta. Hanno avuto l’impressione di vedere qualche cosa di già visto, l’impressione che ciò che avveniva in questo momento fosse già avvenuto anche ieri l’altro. Tentavano disperatamente di ricordarsene. E quando all’improvviso hanno saputo, quando l’hanno guardato per riconoscerlo con gli occhi dopo averlo riconosciuto col cuore, Egli si è reso invisibile al loro sguardo. Nel momento in cui son riusciti a dare un nome e a definire l’emozione che avevano provata, l’apparizione è svanita, perché non era che il mezzo, il sacramento, il segno sensibile della sua presenza viva nella loro anima.
Se i discepoli di Emmaus avessero riconosciuto Gesù con gli occhi, non avrebbero avuto bisogno di diventare sensibili a Dio, docili a Dio, permeabili a Dio. Avrebbero potuto rimanere stolti e lenti a credere. Per fortuna si son lasciati lavorare, trasformare da Lui durante il ritiro che Egli ha loro predicato per dei chilometri di strada. Anch’essi però non sono stati meno favoriti di noi: l’hanno riconosciuto dai due Sacramenti di cui tutti disponiamo: la parola viva e la frazione del pane. Quasi ogni apparizione del Signore è stata accompagnata da un pasto preso in comune. Gli Apostoli hanno imparato a conoscerlo dalla Messa. E come già sapete, l’apparizione si è conclusa con una missione. Ite, missa est. Immediatamente si sono alzati e son partiti per andare a ritrovare gli altri. Non sono rimasti lì a fare il ringraziamento. Si sono precipitati verso gli altri per comunicare ad essi la loro gioia e la loro fede. Come Maria Maddalena, sono stati rilanciati dalla mistica nell’apostolato e nella vita di contatto fraterno. Sono passati dal Capo alle membra, dal Corpo eucaristico al Corpo ecclesiale. « E nel medesimo istante si alzarono e tornarono a Gerusalemme, dove trovarono gli undici riuniti e quelli che erano con loro, i quali dissero che il Signore era risorto ed era apparso a Simone! Ed essi presero a raccontare quanto era accaduto loro per via e come l’avevano riconosciuto quando Egli spezzò il pane ». La loro gioia fu di far comprendere a tutta la Chiesa che la presenza di Gesù non è un’apparizione fugace, una fortuna individuale, un incontro straordinario. La loro esperienza eucaristica provava che questa presenza era un diritto di ogni credente, era un potere che Egli aveva loro affidato per sempre. Ogni volta che lo avessero voluto, avrebbero potuto adunarsi fraternamente e celebrare l’Eucarestia, renderlo presente in mezzo a loro nella frazione del pane. Il Signore aveva rimediato alla loro tristezza, colmato di gioia la loro povertà, saziato il loro fervore! Non mancava loro più nulla a questo mondo da quando avevano accettato che Egli divenisse invisibile ai loro occhi, da quando avevano accettato di riconoscerlo « sotto un’altra forma, » di presenza (Mc. 16, 12).
Il cristianesimo non è ottimista! Chesterton ha detto che l’ottimista è un imbecille felice e il pessimista un imbecille infelice. Noi non siamo nè ottimisti, nè pessimisti. Noi crediamo che il mondo è stato redento, ma attraverso la remissione dei peccati! Crediamo che l’uomo è peccatore ma che Dio perdona. Crediamo che l’uomo è molto cattivo ma che Dio è tanto buono che la cosa non ha più alcuna importanza! Crediamo che Dio è colui che fa di ciascuna delle nostre colpe una felice colpa, una colpa che ci rivela la bontà, la tenerezza con le quali siamo stati perdonati! Crediamo che le nostre più gravi malattie possono lasciarci il ricordo, l’amicizia, l’intimità, col medico che ci ha così bene curati! « Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati! Sono venuto a cercare e salvare ciò che era perduto! ». Soltanto coloro che son perduti lo interessano!.
La vera gioia è lenta a crescere! Non avete che da leggere la vita della Madonna per capire di che natura è la vera gioia! Lei! « Beata, tu che hai creduto!… ». Lei! La causa della nostra gioia!… Ha pronunciato delle parole che possiamo ripetere con rapimento tanto ci confortano! « Maria e Giuseppe erano stupiti di ciò che diceva loro! ». « Figlio mio, perché ci hai trattato così? ». « E non capiva ciò che Egli loro diceva ». Ecco delle parole che a noi, che siamo realisti, rinfrescano l’anima, ci aiutano a concepire che la gioia di Maria, anch’essa, fu una tristezza superata, una gioia di fede. La gioia non è necessariamente esuberante e sentita. Può essere una gioia nella quale si crede: tanto viva e reale quanto la nostra fede. Disponiamo di una gioia inesauribile, ma è fatta di un perpetuo miracolo; è un dono quotidiano del Padre, come la nostra fede, la nostra speranza, la nostra carità. C’è una bella parola di San Pietro, che dovremmo ripetere ogni mattina: « Siate sempre pronti a render conto, a chiunque ve lo domandi, della speranza che è in voi ». Abbiamo una gioia da dare al mondo; siamo responsabili della gioia del mondo.Quando la gioia cristiana cessa di sollevarlo, il mondo ricade nella sua antica disperazione
I cattolici non leggono la parola di Dio. Dio ha loro inviato una lettera: se la mettono in tasca senza aprirla. Dio ha loro lasciato un « testamento ». Se la peggiore delle vostre vecchie parenti avesse lasciato un testamento, beh, certo l’aprireste per vedere se per caso vi avesse lasciato qualcosa… Ma del Signore voi siete talmente certi che non vi ha lasciato niente che non vi date neppure la pena d’informarvi dei suoi legati. Vi aspetta una curiosa intervista in cielo, ve lo assicuro io! Quando sarete arrivati lassù e vedrete il Signore tutto splendente di amore, di gioia, tutto sfavillante di letizia e di affetto per voi, diventerete per la prima volta voi stessi, nascerete alla verità sotto lo sguardo di Colui che solo vi conosce, vi chiama e vi ama, ed esclamerete:* Ah, Signore, se avessi saputo che eri così! Ah, se ti avessi conosciuto prima! Ma perche non me l’hanno detto? Che cosa hanno fatto tutti i nostri parroci ? Perché non mi hanno avvertito? La mia vita ne sarebbe stata trasformata! Sarei stato sempre felice, avrei incoraggiato tutti; la mia vita sarebbe stata consacrata a testimoniare la mia fede, la mia gioia di esser stato amato così! » Ma il Signore ci risponderà: « E come mai hai fatto a non saperlo? So bene che le prediche dei miei preti non sono sempre straordinarie, però Io avevo avuto cura di lasciarti di Me l’immagine più fedele, il ritratto più preciso. Non hai letto il mio Vangelo? ». Allora passerete un brutto momento… E se il Signore insistesse? « Povero figliuolo, non avevi proprio il tempo di leggere? Eri tanto preso dal tuo lavoro? E quali sono i libri che hai giudicati più urgenti, più importanti, più interessanti da leggere? ». Vi vedete mentre cercate di elencarne i titoli? Sarà una cosa divertente!…Ma c’e di peggio. Il Vangelo è letto ad alta voce a ogni Messa; è letto, cantato, spiegato, commentato: e non c’è niente che dimentichiamo più in fretta! Il Signore ha detto che questa è una prova dell’esistenza del diavolo
Esiste, nella nostra vita, un certo numero di prove sperimentali dell’esistenza del diavolo; badate non dico prove di autorità, dico prove sperimentali. E ve ne cito subito una: la rapidità veramente soprannaturale con la quale dimentichiamo la parola di Dio— posto che l’abbiamo mai ascoltata. Ne faccio l’esperienza ogni volta che predico un ritiro o un corso di esercizi. La prova non fallisce mai. Domando ad esempio all’uscita dalla messa domenicale, o all’indomani, o due giorni dopo, come oggi: « Qual era il Vangelo, di domenica scorsa? ». Allora un penoso vuoto mentale si scava nella testa dei miei uditori. E nella vostra? La parola di Dio è stata annunciata: Dio vi ha parlato, vi ha detto il suo amore, vi ha fornito delle necessario provviste di viaggio per la settimana che sta per incominciare: la parola di Dio che deve nutrirvi e fortificarvi — « Di’ soltanto una parola e la mia anima sarà guarita » — e voi non avete ancora finito di ascoltarla che già l’avete dimenticata. Ricevuta e perduta nello stesso momento.
« Maria conservava queste cose… ». Ma i cristiani non si curano affatto di custodirle! « Beato chi ascolta la parola di Dio e la custodisce! ».
I cristiani la dimenticano sempre appena detta! Il Cristo ci assicura che questo è un fatto soprannaturale. E l’attribuisce a un intervento del diavolo. Egli vede Satana che come un corvo, come un sinistro ladruncolo imboscato all’angolo di un campo, non appena vede che il buon grano della parola di Dio è seminato si precipita a volo per rubarlo prima che germini…Ah, non fate certo così per il resto. Se avete letto un romanzo, se siete stati al cinema, a teatro, alla televisione, ve ne ricordate, eccome! Siete capaci di raccontare la storia, ripensate continuamente con compiacenza agli episodi più commoventi (e voglia il cielo che non siano i più scabrosi!…). Tutto c’impressiona, tutto incide su di noi. Soltanto la Parola di Dio non ci fa alcuna impressione. Sparisce senza lasciar traccia, ci lascia totalmente indìfferenti. Ah, chi restituirà alla parola di Dio la sua «forza di urto »?
Eppure la parola di Dio ci ha creati. « Dio disse e fu fatto… ». Ciascuno di noi è stato chiamato all’esistenza da una parola di Dio, ciascuno di noi è una parola di Dio vivente e che deve edificare gli altri. La nostra vocazione, il nostro destino, la nostra conversione, la nostra entrata nella Fraternità, la nostra presenza qui, tutto è il risultato di una chiamata, di una parola di Dio che ci e stata rivolta. Abbiamo cominciato ad esistere solo perchè Dio ha pronunciato il nostro nome. E ogni volta che lo pronuncia di nuovo, avviene una nuova nascita, la nostra vita s’illumina, il cuore si sveglia, la gioia cresce e ci sembra di non avere vissuto prima di quel momento.
Il popolo di Dio stesso, la Chiesa, è costituito da una chiamata, da una parola di Dio che lo raduna: ecco perché la parola è (o dovrebbe essere) proclamata all’inizio di ciascuna delle nostre assemblee cristiane. La parola di Dio crea e conserva il popolo di Dio.
E la parola di Dio ci giudicherà. Lo sapete che non abbiamo nessuno che ci giudichi? « II Padre non giudica nessuno ». Il Padre non è un giudice: è Padre. « Ha rimesso ogni giudizio al Figlio ». “E il Figlio, non giudica nessuno! «Non sono venuto nel mondo per giudicare il mondo, ma per salvarlo ». Né il Padre, né il Figlio ci giudicheranno. Essi sono amore, aiuto, pietà, invito, perdono, misericordia; non sono giudici.
Ma allora chi ci giudicherà ? La Parola! Saremo giudicati dalla parola di Dio, e sulla parola. «Se uno ascolta le mie parole e non le osserva Io non lo giudico; non sono venuto infatti a giudicare il mondo, ma a salvare il mondo. Chi mi disprezza e non vuole accogliere le mie parole, ha chi lo giudica: la parola che ho annunciata è quella che lo giudicherà nel giorno estremo » (Gio. 12, 47-48).
Il giudizio avverrà così : « La parola di Dio vi è stata detta? La parola di Dio vi ha guariti? La parola di Dio ha portato frutto in voi?Siete stati una delle pecorelle che ascoltano la sua voce e Lo seguono? ». E la parola di Dio ci risusciterà. « Viene l’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e coloro che l’avranno ascoltata, vivranno » (Gio. 5, 25). Può anche risuscitare un morto la parola di Dio! E c’è sempre, in ciascuno di noi, un morto da risuscitare, una zona inerte a cui ridare la vita. È appunto quella in cui Dio parla…
“Ma, mi direte, io ho cercato di fare quello che mi dite. Ho comprato un giorno un Vangelo, l’ho aperto, ho cominciato a leggerlo. Inutile! Non mi ha servito a niente: la storia la sapevo, i personaggi erano senza vita, il quadro troppo lontano, il senso difficile. Forse l’ho anche finito, non tanto per leggerlo quanto per non dover dire di non averlo letto! Già, nel piccolo numero di quelli che hanno letto il Vangelo sono anche compresi molti che l’hanno letto soltanto per sfuggire al rimprovero di non averlo letto!
Perché questo insuccesso?
Perché non l’avete letto come doveva esser letto, ecco tutto.
Prima di leggere la parola di Dio, bisogna mettersi in ginocchio e pregare. « Senza di Me non potete far nulla ». Nessuno può capire da sé una parola di D’io. « È necessaria la stessa grazia, dicevano i Padri della Chiesa, tanto a chi ascolta una profezia quanto a chi la pronuncia ». Lo Spirito che ha ispirato il libro, deve ispirare lettore. Ogni parola della Scrittura, se non deve restare lettera morta, ha bisogno di essere di nuovo ripresa, invasa, ricaricata di senso da quello stesso soffio dello Spirito di Dio che ria-nima le ossa aride.
D’altra parte la parola di Dio non deve essere « letta »; dev’ essere ascoltata. È cosa ben diversa! Leggere, e avere fra le mani un libro morto, riesumare un’antica storia. Ma si ascolta una parola viva, pronunciata attualmente, che è indirizzata a voi, che vi concerne, vi riguarda, vi denuncia.
« La parola di Dio è viva » dice San Paolo (Ebr. 4, 12). Avete sperimentato quanto sia viva, efficace, più affilata di qualsiasi spada a due tagli, penetrante fino a dividere anima e spirito e a distinguere i sentimenti e i pensieri del cuore? Ha una grande opera da compiere in ciascuno di noi: apritevi, affinchè essa operi. Ascoltatela, perché vi parla.
Quando vi comunicate, voi non vi unite al Cristo vivente di duemila anni fa. Vi comunicate al Cristo presente. Quando aprite il Vangelo, non mettetevi a leggere ciò che è avvenuto un giorno: ascoltatelo. Egli parla, vi parla.
Bisogna ascoltare questa parola, e bisogna meditarla. « Beati quelli che ascoltano la parola di Dio, e la custodiscono! ». Meditarla vuoi dire questo: ripetersela fino a tanto che parli. E ci vuole molto tempo…
Davanti a una parola di Dio ci sono due modi stupidi di comportarsi. Il primo è di dire: « Magnifico, ho capito tutto. Com’è chiaro! È luminoso! »; e l’aItro: «”Non ci capisco niente, è scoraggiante; chiudiamo il libro, non mi dice proprio niente ». Fra i due c’è un altro solo atteggiamento giusto, quello di Maria « Non capiva quello che Egli diceva, ma conservava tutte queste cose e se le ripeteva nel cuore ». Conoscete un modo di capire la parola di Dio diverso da quello della Madonna? Siamo talmente estranei a Dio! Tutti i nostri sensi spirituali sono come ostruiti, tutte le nostre percezioni religiose sono come addormentate. E perciò bisogna pregare, supplicare, ripeterci indefinitamente le stesse cose nel fondo del cuore, fino a che la parola di Dio ci parli. Ci rincresce che i Protestanti non onorino, come noi, la S. Eucarestia. Ma in questo tempo di ecumenismo, dovremmo, noi cattolici, imitare il loro culto della Parola di. Dio. Impariamo a trattare la Bibbia, il Vangelo, come un libro sacro, un libro di comunione, precisamente come se ricevessimo in mano la S. Eucarestia. Nell’Ostia Egli. è presente, e nel suo Libro ci parla. I nostri fratelli ortodossi, sull’altare non mettono l’Eucarestia. V’intronizzano l’Evangeliario, circondato da ceri, come facciamo noi qui. Ed è logico: non potete comunicarvi che una volta al giorno, ma potete ascoltarlo ogni volta che volete. In ogni momento Egli è qui per parlarvi. L’uomo non vive di solo pane, neppure del pane eucaristico, ma vive di ogni Parola che esce dalla bocca di DIO.
Trattate il Libro con lo stesso rispetto con cui trattate l’Eucarestia. Sareste certo inorriditi se una particella del Pane di vita fosse trascurata, gettata via, perduta; ma voi lasciate cadere con tanta facilità la Parola di vita.
Riflettete: se voi scambiaste il Pane eucaristico per del pane ordinario, per voi, sarebbe del pane ordinario. Supponete un chierichetto un po’ curioso che volesse « assaggiare » il pane azzimo e che, per disgrazia, prendesse un’ostia consacrata. Non ci sarebbe sacrilegio, perché non lo sapeva, ma non per questo farebbe una comunione. Non riceverebbe una goccia sola di grazia. L’ha presa per del pane ordinario e per lui è come se fosse del pane ordinario. Così, se voi leggete il Vangelo come un libro ordinario, senza venerazione, senza fede, per voi è un libro ordinario. Non vi porterà alcun vantaggio, non ne riceverete alcuna grazia. Il Signore stesso per coloro che l’avvicinavano senza fede, per tutti quelli che lo consideravano un uomo come un altro, era un uomo come un altro. Non comunicava loro alcuna grazia; non poteva fare alcun miracolo. Ricordate quella donna ammalata, nella folla, che cercava di avvicinarsi al Signore e diceva: « Se riesco a toccare soltanto l’orlo della sua veste sono guarita ». Gesù è talmente circondato, stretto, assalito dai curiosi che non riesce a raggiungerlo. Poi, a un tratto, grazie a un movimento della folla, riesce a infilarsi, lo raggiunge, lo tocca… E sente un immenso benessere in tutto il corpo: è guarita! Immediatamente, il Signore si ferma: « Chi mi ha toccato? ». Gli Apostoli, realisti come al solito: « Come vuoi che ti si risponda? Tutti ci toccano! Tutti ci urtano! Magari ci lasciassero un po’ in pace, si tenessero un po’ lontani! ».Ma il Signore non dà loro retta. « Qualcuno mi ha toccato, ripete, perché una virtù è uscita da me ». Allora la folla intuisce che deve essere accaduto qualcosa di importante. Tutti indietreggiano, tutti si scusano, tutti si difendono: « Io non ho fatto niente, io non ho toccato, io non ero vicino a Lui ». E quella povera donna si trova sola in mezzo al cerchio e confessa: « Sono io che l’ho toccato ». II Signore la guarda e le dice: « La tua fede ti ha salvato. Va’ in pace ». Cercate di capire: lo toccavano tutti, lo urtavano tutti. Nessuno era stato guarito. Una sola lo tocca con rispetto, con fede, con amore, ed è trasformata, rinnovata, guarita.
Allo stesso modo tutti prendono il Vangelo in mano, tutti lo sfogliano, lo percorrono superficialmente. Nessuno ne è nutrito, nessuno è cambiato, nessuno ha fatto un atto di fede.
vuol dire?
Credere che tutto ciò che vi si legge è avvenuto un giorno, duemila anni fa; trattarlo come un libro storico, riconoscergli il valore che si annette a qualsiasi libro di storia serio. Ma il Vangelo è molto più che una storia: è una Profezia, una Rivelazione. Il Vangelo ci rivela ciò che avviene oggi, ciò che avverrà sempre. Il Vangelo è una luce per la nostra vita, per ogni vita. Vi aiuta a riconoscere che, anche per voi, Dio si è fatto carne e abita fra noi. Il Vangelo, è Dio che viene a vivere in mezzo agli uomini. Dio vive sempre in mezzo agli uomini. « Io sono con voi tutti i giorni… ». Dio è sempre lo stesso: pieno di amore, discreto; non si impone, si propone; chiama, parla. È tanto facile comportarsi come se non si avesse udito. È così facile imporre silenzio a Dio! E gli uomini sono sempre gli stessi: grossolani, negligenti, distratti, duri d’orecchio e duri di pelle, pronti a rimproverare a Dio di tacere, ma trascurati nell’ascoltarlo. II Vangelo ci rivela ciò che avverrà sempre: come Dio si comporta verso di noi, e come noi ci comportiamo verso di Lui, come ci tratta Lui, e come lo trattiamo, lo maltrattiamo noi… Nel Vangelo, siamo predetti, profetizzati, denunciati.
Aprite il Vangelo e guardatevi; imparate a vedere ciò che state facendo: « Perdona loro, non sanno quello che fanno! ». Non sappiamo quello che facciamo, ma potremmo, dovremmo saperlo. Possediamo una Rivelazione!! Lasciamoci rivelare dal Vangelo. Soltanto quando ci saremo visti nel Vangelo, questo libro comincerà a parlarci.
“Ci sono quattro specie di uditori, quattro specie di terreno su cui cade la parola di Dio.
1) C’è anzitutto la strada maestra, cilindrata, impermeabilizzata, asfaltata dall’abitudine.
La semente cade su di essa senza intaccarla. Hanno ascoltato un’infinità di prediche e nessuna li ha cambiati. Non s’attendevano niente dalla parola e non l’hanno amata, Non hanno fame della parola di Dio. Chi fra di noi si è sentito tanto povero da esser venuto qui per cercare una luce, il cibo di cui ha bisogno per continuare a vivere? Chi di noi ha abbastanza fede per credere che Dio, che si è servito di un cespuglio di spine per manifestarsi a Mosè, può anche parlare attraverso a qualsivoglia predicatore? I fedeli simboleggiati dalla strada maestra certamente non lo credono. Quando la predica comincia, ricadono nel sonn
o di cui li ha privati, o piuttosto riprendono a pensare ai loro sogni favoriti, alle loro preoccupazioni abituali, ai loro calcoli d’interesse, alle loro previsioni. Che cosa tremenda sarebbe rivelare i pensieri in cui ci s’intrattiene mentre Dio ci parla e cerca di toccarci il cuore!
2) La seconda classe è quella dei superficiali, delle anime sensibili ed entusiaste, ma senza profondità. Non conoscono se stesse, e non sospettano la resistenza che oppongono alla parola di Dio le loro abitudini, il loro egoismo, la loro incostanza. Non si sono mai date la pena di eliminare le pietre che soffocano il seme. Si entusiasmano facilmente e si credono convertite perché si sentono commosse; se poi accade loro di versare una lacrima, credono con questo di aver dato grandi prove di virtù. Tutto ciò che sentono le commuove, ma nulla s’imprime nella loro anima. Si affrettano a ripetere agli altri i pensieri che cominciavano a scuoterle, e così se ne scaricano, invece di lasciarsene penetrare. Vantano il predicatore a tutti («straordinario!»), ma poiché si attribuiscono tutto il merito di averlo scoperto, ascoltato e approvato — e se ne vantano — si credono dispensati dall’acquistare altri meriti.
3) La terza classe è la terra profonda e feconda dove la parola potrebbe germinare. Sono caratteri riflessivi, spiriti formati. Ma si affrettano a soffocarla: hanno timore che metta radici sul serio. Si stordiscono nell’agitazione, nel lavoro e considerano la loro vita presente abbastanza piena per dar loro il diritto di trascurare quella eterna. S’interessano a troppe cose per occuparsi anche di Dio. Sono troppo intelligenti per inchinarsi davanti alla semplicità della parola evangelica. Trovano sempre un’obiezione da opporle, una ragione per contraddirla, un difetto per scherzarci su, una scusa per dispensarsi dal pensarvi. Nell’atto stesso in cui l’ascoltano, si impegnano in una giostra col predicatore, una giostra mentale da cui escono sempre vincitori. Sono i peggiori: volontariamente insensibili, coltivano deliberatamente le spine del loro orgoglio, della loro agitazione, del loro motteggio per soffocare il buon grano che li minaccia.
Quale sarebbe allora la terra buona che accoglie avidamente il seme e lo fa germinare in atti? Qual è il terreno su cui la parola di Dio porta frutto?
Ebbene, cari amici, non esito a dirlo: sono coloro fra di voi che si sono riconosciuti nelle categorie precedenti. Sì, non sono quelli che assistendo alla critica degli altri aspettavano compiaciuti che si facesse il loro elogio. Sono coloro che si guardano nello specchio della parola di Dio e vi si riconoscono: « Guarda, sono proprio io. Si tratta di me, è proprio di me che parla ».La prendono per sé, si aprono alla parola,le permettono di entrare e di operare in essi. Accettano di essere discussi, accettano che li faccia scendere dal piedistallo della loro buona opinione di sé e delle posizioni acquistate. L’accolgono come una rivelazione, l’accettano come rivolta personalmente a loro. Si lasciano giudicare dalla parola di Dio, affinché essa non li condanni nell’ultimo giorno. Allora essa penetra in profondità, matura, germina e porta frutti magnifici.
La disgrazia attuale della Chiesa, è la paganizzazione dell’immensa massa cattolica. I cristiani non sono più lievito, non sono neanche più pasta, sono del gesso impastato. Si stendono a loro agio nella’barca’della Salvezza e contano per le manovre occorrenti sui loro parroci e sui loro vescovi. La loro religione è un rivestimento fatto di abitudini, massiccio e ben pressato (non cercate d’intaccarlo!), ma di dentro non c’è che vuoto: non provano alcun gusto, non hanno al- cuna esperienza di Dio, non hanno la gioia di Dio. Adempiono ai loro doveri religiosi per assicurarsi la Salvezza. Ahimè, il solo segno di incominciare a credere,sarebbe quello di essere spaventati di credere così poco.Tu non hai la fede: è la fede che ha te, e raramente ti penetra fino all’osso! Fin dove è penetrata in te? In che misura ti è diventata consustanziale? Fino a che punto è diventata midollo delle tue ossa? Siamo tutti delle ossa aride. Certo non destiamo in nessuno il desiderio di venire a gustare e assaporare. Non c’è proprio niente che possa essere gustato! Non c’è religione adulta e non c’è possibilità di apostolato se non possiamo dire ai nostri educatori religiosi ciò che i samaritani hanno finito per dire alla samaritana: « Ora, non crediamo più per quello che ci hai detto — crediamo per averlo udito con le nostre orecchie — ora sappiamo che Egli è il Salvatore del mondo ». Noi stessi non ci convertiremo, la nostra religione non sarà entusiasta, viva, contagiosa che quando potremo dire ai nostri genitori, ai nostri parroci, ai nostri professori: « Ora non crediamo più per ciò che ci avete detto;l’abbiamo udito noi stessi; Lui in persona ci ha parlato, la sua parola mi ha nutrito, guarito, mi ha risuscitato dall’abisso di morte in cui ero sprofondato». Quand’ero giovane, immaginavo che Egli avesse salvato il mondo duemila anni fa. Ma oggi, dopo aver visto tanta gente e aver ricevuto tante confidenze, so che la parola di Dio è viva e operante nel mondo. So che una forza di salvezza è all’opera che essa può raggiungere anche noi e che possiamo essere guariti. Provatela, fatene l’esperienza, offritevi, apritevi a lei, chiedete che vi parli, che vi trasformi, che vi restituisca la vita e la gioia. Allora sarete dei testimoni, allora diventerete degli apostoli. Potrete allora andare verso gli altri e invitarli a condividere la vostra esperienza. Non sarà più necessario esser nati nel cattolicesimo per credervi. Basterà prendere il Libro, ascoltare la parola.
LO RICONOBBERO ALLO SPEZZAR DEL PANE»
Non abbiamo ancora finito di meditare su questa seconda stazione. I discepoli di Emmaus ci hanno insegnato a riconoscere il Cristo dalla sua Parola; devono ancora insegnarci a riconoscerlo alla frazione del pane. Il Cristo risorto quasi sempre appare durante un pasto preso in comune. Ha iniziato gli Apostoli alla celebrazione dell’Eucarestia. Li ha preparati a riconoscerlo in quell’apparizione quotidiana a cui siamo tutti invitati: la Messa. Per andare direttamente allo scopo, per poter sentire il mordente del discorso e riconoscere la indigenza della nostra fede, abbiamo il coraggio di domandarci: abbiamo qualche volta, noi, ri- conosciuto il Signore alla frazione del pane? Ci è mai capitato di celebrare la Messa con un senso così vivo di fraternità, in uno spirito di fede così intenso da essere afferrati dalla grandezza di ciò che stiamo facendo insieme, da farci sentire che Dio solo poteva amarci e unirci così?
I discepoli di Emmaus hanno ritrovato il Signore nel gesto di amore e di dono col quale ha condiviso con loro il suo pane. Il pane, è ciò che alimenta la vita. Chi da il proprio pane, dona la vita—chi dona questo pane dà la vita. Lo riconobbero da questo gesto d’amore col quale donava loro la sua vita, da quel « più grande » amore col quale Dio solo poteva amare e che consiste nel dar la vita per quelli che si amano.
Riconoscete voi Dio dal suo amore, da questo modo di amare fino in fondo che Egli solo poteva inventare? Che cosa ci pare più convincente, un miracolo o l’Eucarestia, una manifestazione di potenza o un segno di puro amore?
Abbiamo la missione di riempire il mondo della carità di Cristo, di fare di questo mondo un luogo ove abiti la giustizia, dove ci si ami reciprocamente. Ecco la vera opera sacerdotale, la vera missione sacrificale.
Il mondo si riscatta nella nostra vita e non nelle chiese: con l’intensità di fede e di amore che mettiamo nella nostra vita. Credete che non sia possibile mettere nella vostra vita, di oggi, così com’è, molto più amore? Credete che sia necessario, per questo, poter cambiare la vita? Non dovreste, invece, semplicemente cambiare il vostro modo di amare? Credete che manchino alla vostra vita degli avvenimenti capaci di scuoterla? Non le manca piuttosto un cuore capace di imprimere un impulso nuovo? Quando una donna si domanda: « Che cosa posso loro preparare oggi a pranzo? » non dovrebbe in fondo voler dire altro che questo: « Come posso loro dimostrare oggi, ancora una volta, che li amo? Come posso trasformare in gioia questo dovere, per loro e per me? Come posso riunirli tutti e allietarli nel mio amore? ».
Allora questo cibo avrebbe veramente buon sapore, un sapore di amore. Sarebbe segno di amor di Dio e degli uomini. E ne sarebbe anche sorgente, ve l’assicuro. Sarebbe anche questo un amore che si fa riconoscere allo spezzare del pane. Supponete per un momento di dover portare fra poco la vostra ostia all’altare, e supponete che questo pane sia quello che avete guadagnato e impastato col vostro amore di tutta la settimana. Che specie di pane mi porterete da consacrare? Che profumo, che gusto avrà questo pane, fatto delle nostre vite? Che cosa terribile se dovessimo offrire a Dio, perché Egli vi si incarni, un pane fatto di astiosità, d’asprezza e di lamenti, di rancore e di disgusto! Sarebbe questo un pane di giustizia, un pane di onestà, un pane ben guadagnato, un pane fatto di amore, di servizi resi ai fratelli, un pane impastato gioiosamente nella fierezza e nel rispetto della missione che vi è stata affidata? Questo pane è segno delle nostre vite. Un segno deve significare qualcosa, e se questo pane ha un cattivo sapore, se è ammuffito, non può esser consacrato, Dio non l’accetta: sarebbe fargli la peggiore ingiuria il consacrargli un pane che vi disgusta!
Deve essere segno del vostro amore di Dio e del vostro amore per i fratelli. A questa condizione, diventerà sorgente. Ma se non amate nessuno e detestate il vostro lavoro, andate prima a riconciliarvi con tutto ciò che non amate, e poi venite a presentare il vostro dono all’altare.
Ci è stato affidato il compito di mettere il mondo in stato di grazia, di restituirlo a Dio in un gesto di amore e di offerta. Il mondo dovrebbe finire in un’Eucarestia. I Padri della Chiesa dicevano: « Quando l’Eucarestia sarà validamente celebrata su tutta la terra, allora questo mondo passerà », compirà il suo passaggio, farà Pasqua verso il Signore, poiché Egli sarà stato sinceramente offerto e consacrato.
Ma pensate: sarà per questo necessario che tutti i popoli abbiano del pane da offrire e del vino col quale rendere grazie, che miliardi di uomini sottoalimentati, oppressi, sfruttati, abbiano finalmente del motivi e dei mezzi per farlo. Se il cristianesimo si è dapprima diffuso nella nostra civiltà occidentale, e con un tale lusso di sviluppo materiale, non è forse affinché possiamo offrire a tutta la terra, insieme a una evangelizzazione per mezzo della parola, la materia del suo sacrificio, quel minimo di nutrimento e di gioia necessari perchè tutti possano esprimere a Dio il loro ossequio e la loro azione di grazie?
Come sarebbe bello se il mondo intero potesse unirsi in un’unica azione di grazie, per mezzo di un pane e di un vino che avessimo prodotto e condiviso. Credo che allora tutti gli uomini ci riconoscerebbero, finalmente, per ciò che dichiariamo di essere, e che riconoscerebbero il Cristo allo spezzare di questo pane. E avverrebbe, su scala planetaria, un’ apparizione dell’ amore di Dio da cui tutti si lascerebbero convincere.
Dovrete farvi nutrire da Lui affinché gli altri possano venire a mangiare il pane che avete nel cuore. Dio vi si rivela attraverso l’amore che vi dà per loro. Dio si rivela agli altri attraverso l’amore che ricevono da voi. Vivete una vita di amore, e vi lamentate di non conoscere più Dio, di essere immersi nelle cose materiali fino al collo! ». Gesù dice loro: « Venite, mangiate ». Gli Apostoli sono impacciati, paralizzati dalla emozione, dal timore, dall’incertezza. Soltanto Gesù è perfettamente se stesso, sorride, li invita. Ed ecco la più bella frase del Vangelo: « E nessuno di loro osava domandargli: Chi sei? perché sapevano che era il Signore ». Parola ammirabile, la più trasparente alla grazia, piena di senso e di mistero, saporosa e consolante, dove ciascuno di noi può ritrovarsi. In un certo modo, a una certa profondità, gli Apostoli sanno che è il Signore, che dev’essere Lui, che non può essere che Lui. Ne sono convinti, indipendentemente da ciò che vedono, o piuttosto da ciò che non vedono perché Gesù non è più come l’avevano conosciuto. E tuttavia, pur in questa piena convinzione inferiore, i sensi non soddisfatti, si lamentano. Non lo « ritrovano ». Non rassomiglia più a se stesso. Non ha niente di straordinario. È come tutti gli altri. E desiderano l’illusoria conferma di una parola, di un’affermazione: « Sì, sono proprio io… ». Vogliono sentire e toccare prima di convenirsi a loro volta ai piedi di questa radiosa presenza. Ma l’anima, sicura e ricca della propria scienza, non osa acconsentire a questo capriccio: sentendo di avere in sé tutta la certezza necessaria, accetta il doloroso smarrimento dei sensi che non riescono ad afferrare un oggetto non più fatto per loro. E più s’astengono dal chiedergli chi sia, più si superano e progrediscono in questa rinuncia e più la loro certezza cresce, più sanno che è proprio il Signore. Se si fossero lasciati indurre a dubitare, non avrebbero mai raggiunto la certezza. Se avessero preteso un cambiamento da parte di Dio, non sarebbero mai riusciti a credere
Che età avete? Siete dove siete per volontà vostra, o vi siete sottoposti alla volontà di un altro? Andate dove vi pare? Fate quello che volete? Allora siete ancora molto giovane…Quando sarai adulto nel Cristo, un altro, parecchi altri ti avranno preso per mano, e ti condurranno là dove non volevi andare, là dovi non avresti mai avuto il coraggio di andare, ma dove un giorno sarai fiero e contento di essere stato così felicemente condotto.
« Diceva questo per significare con quale genere di morte Pietro avrebbe reso gloria al Signore!» Tutta la vita di Pietro è, come ognuna delle nostre vite, ognuna delle nostre apparizioni, la storia di una vecchia preghiera esaudita.Un giorno, sul Tabor, aveva detto al suo maestro: « Signore, è bene per noi stare qui. Permettici di restarci ». Ci si trova così bene a questo ritiro. Si sta così bene in Fraternità. Ci vogliamo tanto bene, lui e io, o tutti insieme. Non possiamo piantar qui le nostre tende e rimanervi per sempre? E il Cristo gli diede una risposta misteriosa che implicava morte e resurrezione, passione e gioia. Ma si è sempre esauditi. E un giorno, sulla sua propria croce, dove non avrebbe voluto salire, Pietro ha detto sul suo calvario ciò che aveva detto sul Tabor: « Signore, è bene per me essere qui. Ti ringrazio di avermici condotto. È tanto più bello di ciò che volevo io. Ora voglio restarvi ».
E voi, dove vi trovate? Sul Tabor? Allora non parlate di queste visioni, non parlate di queste apparizioni, prima di essere passati per una morte e una resurrezione. Ma se siete invece sul calvario, se siete in quel posto dove non volevate andare, dove siete stato condotto da influenze estranee, da mani gentili, da una chiamata del Signore, allora dite sul vostro calvario ciò che avete detto un giorno sul Tabor di un ritiro, di una adorazione, di una vocazione o di un matrimonio: « Signore, è bene per me essere qui. È veramente cosa buona che io sia là dove mi hai voluto. Aiutami a rimanervi e a restarvi fin che tu vuoi. Son disposto a piantarvi la mia tenda e a rimanervi per sempre ».
La risposta di Dio a questa esigenza è sconvolgente, inaudita, disarmante. Oltrepassa tutto ciò che possiamo immaginare. Ciò che Tommaso aveva enunciato come un’esigenza assurda, come una sfida inverosimile formulata nel trasporto appassionato della sua resistenza, ecco che Gesù l’accetta. Si presta alla sua richiesta con la più affettuosa docilità: « Vieni, Tommaso, metti qui il dito, metti qui la mano… e non esser più incredulo, Tommaso, ma fedele ». Il Signore si è lasciato vincere da Tommaso. Sembra aver abbandonato per lui il disegno che aveva avuto riguardo agli altri. Per il solo Tommaso Gesù ha cambiato tutte le sue disposizioni. Ma in tal modo ha salvato Tommaso.Tommaso aveva resistito all’autorità di tutto il Collegio Apostolico. Il primo protestante è lui (notate che se fosse stato conformista, se si fosse unito agli altri per non fare storie, sarebbe diventato un cattolico molto mediocre, non avrebbe mai detto: « Mio Signore e mio Dio ». È stato condotto per una via molto curiosa:diventando protestante si è preparato a essere un fervente cattolico). Gli Apostoli erano così stufi dell’ostinazione di Tommaso che l’avrebbero preso a cazzotti per indurlo a credere (metodo che non tramonterà tanto presto). Ma il Signore amava Tommaso. Sapeva che si mostrava così restìo solo perché si era sentito tanto infelice, ma che nessuno era più generoso di lui (Andiamo. Moriremo!…).Allora Gesù si è schierato con San Tommaso,l’ha difeso contro se stesso, e gli ha parlato al cuore: « Su, Tommaso, fa’ quello che vuoi: metti qui il tuo dito, metti qui la tua mano ». E Tommaso ne è stato tutto sconvolto, perché non aveva mai pensato che una richiesta simile potesse essere esaudita. La sua sfida non era stata che un rifiuto, un mezzo per chiudersi nel suo dubbio, per escludersi da quella banda irritante di credenti. Di scomunicarsi. Il Signore con la sua dolcezza ha immediatamente riconciliato Tommaso. Tommaso mette il dito nelle piaghe luminose, ritrova la forma viva dei chiodi, la forma viva della lancia, la prova viva di tutto l’amore, col quale, lui, Tommaso, è stato amato (Poucelle). Tommaso tocca, tasta, penetra e scoppia in pianto davanti al suo Signore e al suo Dio. Su, venite con lui, voi che dubitate come lui, tastate, toccate, mettete il dito nella sua mano, e la mano nel suo costato. Convincetevi. È vero. È Lui. Proprio voi siete stati amati così.
Ma quando Tommaso ha visto il Signore davanti a sé, tutto luminoso di gioiosa tenerezza, splendente di pace e di amore, ha capito di colpo di aver sempre saputo che Gesù era risorto. Lo sapeva da sempre che doveva essere così. Aveva fatto abbastanza esperienze, aveva vissuto abbastanza a lungo con Gesù per sapere che doveva aspettarsi una cosa simile, che con Gesù capitano sempre delle cose buone, beatificanti, incredibili come questa! Avrebbe dovuto credere agli altri. Rifiutando di credere non aveva fatto altro che mortificarsi, martirizzarsi per difendersi da un’attesa che era solo troppo viva. Moriva tutto insieme dal desiderio e dalla paura di credere. E non c’è stato peggior castigo per Tommaso dell’aver ottenuto ciò che aveva posto come condizione per la sua fede. Si è accorto di aver perduto l’occasione che gli era stata offerta. Ha capito che avrebbe dovuto dare al Signore la sua fede. In fondo, non aveva bisogno di queste prove. Mostrandosi scettico e navigato, si era comportato come un bambino viziato che cerca di imporre le sue esigenze a una bontà di cui è perfettamente sicuro. Quando voleva vedere e toccare, quando stizzosamente resisteva, era meno per bisogno di prove, che per bisogno di tenerezza, per commuoversi, per rallegrarsi, per farsi un po’ viziare. Ah, adesso non aveva più voglia di toccare, avrebbe dato qualunque cosa pur di non dover mettere il dito e la mano nelle piaghe, per non dover sentire quel dolce rimprovero:
« Perché hai veduto, Tommaso, hai creduto: beati quelli che non hanno veduto e hanno creduto ». Prima che Gesù lo dicesse, Tommaso aveva dovuto pensarlo guardando gli altri che avevano avuto la felicità di credere. E quando aveva toccato, l’aveva fatto per docilità, per pentimento. Non come chi vuole accertarsi di una cosa e comincia a misurare (a prendere le impronte digitali…), ma come chi compie un pellegrinaggio. Lo ha fatto; vi è andato. Era ciò che poteva fare di più doloroso e di più umiliante. Riparava, si puniva. Ma per essere penetrato così addentro nell’intimità di Gesù, per essersi visto rivelare fin dove giungeva il suo amore, per aver conosciuto « la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità » (Ef. 3, 18) di questo amore del Cristo che supera ogni conoscenza, Tommaso è stato trasportato a un’altezza che nessuno degli altri aveva fino allora raggiunta. Folgorato, schiacciato, è caduto in ginocchio e ha detto: « Mio Signore e mio Dio! ».
È il primo che la fede abbia portato a quest’altezza. Nessun altro Apostolo aveva ancora detto a Gesù: « Mio Dio! ». Da questo povero Tommaso dubitante e violen- to, Gesù ha tratto il più bell’atto di fede del Vangelo. Gesù l’ha amato tanto, l’ha trattato,curato, guarito con tanta dolcezza da cambiare questa amarezza, questa colpa, questa umiliazione in un meraviglioso ricordo. Dio rimette così i peccati. Dio solo sa fare di tutte le nostre colpe delle felici colpe, delle colpe che non ci ricordano più se non la meravigliosa tenerezza di cui sono state l’occasione. Riflettiamo su noi stessi! Tommaso credeva di non credere. Anche noi spesso siamo più pieni di fede, più credenti, in fondo, di quanto pensiamo. Ne è prova il fatto di sentirci tanto infelici di non credere. Soffrire di non credere è già credere. Soffrire di non amare, è un principio di amore. Beato chi soffre della propria incredulità. Nulla ha più commosso il Signore di questa disperata resistenza di Tommaso a credere, come era tanto tentato di fare. « Beati coloro che non hanno veduto e hanno creduto! ». Questo è stato detto per noi. È in qualche modo il congedo, la missione che termina quest’apparizione. L’incredulità di Tommaso ci può essere vantaggiosa. Non, come dice ingenuamente San Gregorio, grazie alle sue verifiche e ai suoi controlli, ma perché ci esorta a qualcosa. Ci esorta ad apprezzare la nostra fortuna, a rallegrarci del nostro privilegio: noi possiamo ancora credere prima di forzare Gesù a farci vedere e toccare. Guardiamoci dall’essere così dolorosamente ostinati come Tommaso. Non esigiamo delle prove per timore che ce le dia e ci costringa come Tommaso a rifare tutta la nostra Quaresima, a passare di nuovo attraverso ai chiodi, alle piaghe, alla passione, per raggiungere il Signore là dove ci attende, risorto. Gesù non ci rifiuta nulla. Se noi continuiamo a esigerlo, se insistiamo, se, esagerando con cattiveria la nostra ostinazione, la nostra amarezza, esigiamo di vedere e di toccare, Egli cederà: lo vedremo e lo toccheremo. Gesù non si mostrerà meno favorevole a noi che a Tommaso. Un giorno ci convinceremo, un giorno ci troveremo a non poter più negare la felicità, l’amore, la presenza di Dio. Ma in quel giorno ci accorgeremo che lo sapevamo da sempre e che il nostro più grande peccato è stato quello di far finta di non saperlo
State attenti: le nostre preghiere sono sempre esaudite, e il Signore è così buono da ascoltare anche le preghiere che non approva. Concede al figliol prodigo la parte di eredità che gli spetta benché sappia quale triste uso sia per farne, e calma la tempesta sul lago pur biasimando gli Apostoli che hanno avuto paura e hanno manca-to di fede. Anche Tommaso è la storia di una preghiera ascoltata; ma mentre gli altri, Maria Maddalena, i discepoli di Emmaus, Pietro non hanno riconosciuto la propria preghiera quando è stata esaudita, lui, Tommaso, si è accorto che in realtà non desiderava ciò che aveva chiesto, si è accorto che non ne aveva alcun bisogno, che avrebbe fatto meglio a non chiederlo. Preghiamo san Tommaso perché ci eviti d’incorrere nel suo errore. Anche noi un giorno ci vedremo improvvisamente alleggeriti del fardello che oggi ci pesa sulle spalle, liberati dalla catena che ora ci rende ribelli, protetti contro quella disgrazia che temevamo, allietati da quella gioia che pensavamo non fosse per noi. Un giorno vedremo esaudita quella preghiera che credevamo non fosse ascoltata. Beati noi allora, se saremo stati saggi, se avremo avuto un po’ di fede, un po’ di pazienza, un po’di fiducia. Ben più che per la grazia che ci sarà stata concessa, ringrazieremo allora Iddio e san Tommaso di aver potuto fare a Dio un dono, l’unico che gli piaccia, quello di credere in Lui un po’ prima di averlo visto.
Come san Tommaso, la nostra epoca dolorosa e disperata cerca a tentoni dei segni e delle prove. Ha bisogno d’incontrare il Cristo vivo, risorto, cerca un cuore aperto, delle mani aperte, una tenerezza che l’accolga e le dia la pace. Non la si guarirà con degli anatemi, Giovanni XXIII l’aveva capito molto bene. Uno dei suoi familiari lo trovò un giorno con un doppio decimetro in mano intento a misurare uno schema proposto al Concilio: « Ma che cosa fanno dunque laggiù, non hanno proprio capito niente di ciò che volevo! Solo in questo schema trenta centimetri di condanne! ». Parlava il linguaggio del Buon Pastore, lui, e la gente lo ha ascoltato. Il loro cuore pian piano si è riscaldato mentre parlava. E non ha potuto parlare che cinque anni. La nostra epoca non si convertirà mai a Dio se non incontra una vera Chiesa. Nell’apologetica classica, prima si provava l’esistenza di Dio, poi la divinità del Cristo e la sua missione, e infine la fondazione della Chiesa e il mezzo per riconoscerla. Attualmente è proprio il rovescio che occorre fare. I nostri contemporanei non credono più alle prove, ai ragionamenti, alle dimostrazioni. Sono stati troppe volte ingannati, propagandati, delusi. Si è loro dimostrato tutto e poi si è smentito tutto. Più sono informati e più diventano scettici. Perciò vogliono vedere e toccare. La nostra epoca ha bisogno d’incontrare una vera Chiesa: un ambiente dove il Cristo è risorto, dove il suo amore è vivo, dov’Egli ridiventa presente e vi- sibile in mezzo ai suoi. Una società di adulti che si amano e che amano gli altri, che sono poveri, dolci, pieni di affetto e sensibili come quel Cristo risuscitato che ha convertito san Tommaso. Ora comprendiamo perché Gesù rimproveri solo a Tommaso la sua incredulità: « Beati coloro che non hanno veduto e hanno creduto! ». Ma non avevano perduto la fede tutti? Non hanno tutti dovuto vedere per credere? Ebbene, no. Ciò che ha convinto gli altri, non è l’aver visto Gesù che essi non riconoscevano nel suo stato glorioso. È stata l’emozione religiosa suscitata nel loro cuore dalla sua presenza, quell’emozione ch’essi avevano sempre oscuramente provato vivendo col loro divino Maestro. Da questo l’hanno riconosciuto: per mezzo della Fede. Tommaso ha preteso di vedere, sentire, toccare le piaghe del corpo crocifisso. Ha preteso di non potersi contentare di credere.
Queste apparizioni adempiono le promesse di Gesù: « Se qualcuno mi ama io pure l’amerò e gli manifesterò me stesso. Gli dice Giuda, non l’Iscariote: ‘Signore, come va che tu ti manifesti a noi e non al mondo?’. Gesù gli risponde:’Se uno mi ama, verremo a lui e dimoreremo in lui’ » (Gio. 14, 21-24). Gesù ha oltrepassato la sua promessa: si è mostrato a qualcuno che credeva di non amarlo più! Le sue apparizioni rispondono anche alle sue descrizioni dello Spirito « che il mondo non sa ricevere perché non lo vede ». Voglia il cielo che non apparteniamo anche noi al mondo! Anche coloro che si erano convertiti quando Gesù viveva l’avevano fatto per dei motivi non analizzabili, per un’impressione sentita in profondità, là dove Dio solo (se ne rendevano oscuramente conto) poteva agire. « Nessuno ha mai parlato come quest’uomo! ». Hanno dovuto mettere a rischio la loro religione, il loro avvenire temporale, la loro salvezza, per un’impressione che egli faceva loro sentire in cuore. Dio dispone forse di un altro mezzo per farsi riconoscere
I discepoli di Emmaus hanno riconosciuto il Signore dalla sua parola e allo spezzare del pane. Ma san Tommaso lo ha riconosciuto dal suo perdono. Consacreremo questa meditazione all’incontro col Signore nel Sacramento del perdono. La più bella apparizione del Cristo risorto è avvenuta… in un confessionale. Vi è mai accaduto qualcosa di simile? Non è questo l’ultimo posto dove ci aspetteremmo di incontrare il Signore? Per Tommaso questo è rimasto il ricordo più bello. Non aveva mai capito, prima, quanto il Signore l’amava, lo prediligeva, esaudiva le sue preghiere più audaci, lo cercava in tutti i luoghi in cui l’aveva fuggito. E voi? Ricordate con gioia le vostre confessioni? Non avremo fatto un buon ritiro sulla gioia, se non riusciamo a capire e a sentire la gioia della penitenza. È un paradosso soltanto per coloro che ignorano il senso delle parole. La penitenza non è un rimorso, non è neppure il dolore di aver peccato, un ritorno sul passato, un ripiegamento su di sé: « Rientra in te stesso, vile verme della terra… ». Oh, povero fratello mio, se tu potessi invece uscirne! La penitenza è una conversione, un rinnovamento, un volgersi verso il vero Dio che ci chiama pieno di tenerezza e di misericordia. Essa avviene sempre in un dialogo senza angoscia con un Dio così buono che, anziché aver paura dei suoi castighi, noi non temiamo altro che dispiacergli. Davanti al vero Dio soltanto ci si vede peccatore. Noi non sappiamo mai ciò che ci manca prima che ci sia restituito. Soltanto all’uscire dal confessionale si scopre ciò di cui avremmo dovuto occuparci. La mutilazione peggiore è sempre quella di cui non si ha coscienza. Il più triste fra gli orfani è quello che è contento di esserlo: « Si è così liberi, quando non si ha una famiglia! ». Quanto amore, quanta tenerezza e pazienza ci vorrà per destarlo insieme e alla coscienza di ciò che gli manca e alla gioia di ciò che gli è offerto. Quando il vero Dio ci appare, e soltanto allora, ci riconosciamo per quello che siamo: peccatori, incoscienti, ingrati, indifferenti, ribelli. E soltanto la tenerezza del suo perdono ci permette di sopportare la rivelazione delle nostre colpe
Sì, la più grande gioia che esista, è la gioia del perdono. Forse non è, ahimè, la più grande gioia della terra, ma è la più grande gioia del cielo: « C’è più gioia fra gli angeli del cielo per un peccatore che entra in un confessionale che per novantanove giusti… che pensano che non è ancora giunto il momento, che non c’è fretta, che possono benissimo aspettare ancora… ». Oggi non celebriamo più la penitenza. È diventato il più triste dei Sacramenti, il più degradato. Non vi si annuncia neppure la parola di Dio — non una parabola di misericordia per destarci al pentimento — nessuna liturgia — nessuna presenza dei fratelli per sostenerci. È un atto che si compie con ansia e di soppiatto. Non è un incontro col Signore, ma una quietanza ottenuta di straforo. E tuttavia la Buona Novella del Vangelo, il gioioso messaggio che abbiamo avuto l’incarico di annunciare al mondo, è che esiste la remissione dei peccati: « Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura. I peccati saranno rimes- si… ». Per noi, cristiani moderni, il Vangelo è diventato una cattiva novella — e se annunciamo in una chiesa che « Le confessioni si ascolteranno questa sera dalle cinque alle sette », si può star sicuri che nessun sorriso illuminerà i volti dei presenti, che nessun sussulto di gioia, nessun trasporto d’entusiasmo, nessun movimento di massa turberà l’assemblea. Siamo peccatori? Cattiva novella! Bisogna confessarsi? Cattiva novella! Fare penitenza? Triste novella! La radice più profonda della disperazione del mondo odierno è forse l’ignoranza, il rifiuto di credere alla remissione dei peccati. Del resto guardiamo semplicemente i cristiani che si confessano, nell’atto cioè in cui affermano la loro fede nella remissione dei peccati. Non conoscono più la gioia del perdono; non celebrano più la penitenza; non sanno che l’Eucarestia è il banchetto dei peccatori perdonati.
Avete osservato che nel Vangelo tutte le confessioni finiscono con un banchetto? Zaccheo: il Maestro s’invita da sé a casa sua; Matteo invita tutti i suoi colleghi, tutti i peccatori del rione e fanno un lauto pranzo; il figliol prodigo: un vitello grasso e della musica; Maria Maddalena: nel corso di un pranzo — e in seguito sarà lei a ricevere il Signore alla sua tavola. Ahimè, queste usanze non son più le nostre. Non v’aspettate che vostro marito o vostro padre o vostro fratello torni a casa tutto allegro insieme al suo confessore dicendo: « Sono troppo felice! È stato troppo bello! Non potevamo lasciarci così: prenderemo qualcosa insieme! ». Se la passerebbero bene i confessori… Ma se la passerebbero bene anche i confessati. Sarebbe segno che sono entrati nella gioia della penitenza! Ciò che bisogna rivelare al mondo e riscoprire ai cristiani è che esiste una remissione dei peccati. Il che vuoi dire: non ci sono insuccessi definitivi, vite fallite, mali senza rimedio. Dopo ogni colpa, ogni insuccesso, ogni peccato, Dio vi propone un modo di redimervi più bello che se non aveste mai peccato. Lo ripetete voi stessi ogni giorno alla Messa: « O Dio, che hai meravigliosamente creato la dignità della natura umana, e la ripari in modo ancor più meraviglioso… ».Dio non avrebbe permesso il male se non fosse stato capace di ricavarne un bene. La storia del mondo è un dialogo fra Dio e l’uomo: Dio lascia libero l’uomo di contrariare i suoi disegni e d’introdurre il male e la sofferenza nel mondo. Ma a ogni iniziativa umana, risponderà una stupenda invenzione divina. Dio non cesserà mai di proporci dei modi meravigliosi per riparare i mali che avremo fatto. E tutto sarà più bello che se non avessimo mai peccato
Felix culpa! Dio può fare di ciascuna delle nostre colpe una felice colpa, una colpa che non ci ricorderà più che la pazienza, la tenerezza e la gioia con cui ci è stata perdonata. Non entrerete in cielo prima che tutte le vostre colpe siano diventate delle felici colpe. Saremo talmente svuotati di noi stessi e riempiti di Dio che non potremo più sentire, allora, il dispetto, la cattiva vergogna di aver peccato. Grideremo alto e forte a tutti le nostre colpe, per vantare le risorse infinite di amore, di ingegnosità, di perseveranza che il Signore avrà spiegato per indurci a pentirci e ad accettare il suo perdono. Racconteremo a tutti: « Non puoi credere come ero testardo, duro, orgoglioso, disperato, ribelle. Ebbene, Lui non s’è mai scoraggiato, mi ha tirato fuori da tutti i vicoli ciechi in cui mi ero cacciato. È venuto a scovarmi in tutti i buchi in cui mi ero nascosto per sfuggirlo. Ha continuato a chiamarmi, con tanta pazienza, con tanta tenerezza che ho finito per venire. Mi offriva ogni volta il suo perdono con tanta delicatezza che finivo per aver voglia di esser perdonato ». Siete pronti a fare il vostro ingresso in un luogo così pubblico? Entreremo in cielo come dei poveri, non come dei poveri che possano essere fieri di sé, ma come dei poveri stupefatti di aver tanto ricevuto da Lui. C’è una beatitudine dei peccatori nel Vangelo dei peccatori perdonati, certo, ma insomma sempre dei peccatori:Colui al quale non si perdona, non ama. Colui al quale si perdona un po’, ama un po’ (è il corrispettivo della nostra « economizzata » frequenza del Sacramento della Penitenza). Ma colui al quale si perdona molto finisce con l’amare molto. Colui al quale si dimostra un grande amore, finisce per esserne penetrato. « Simone, che te ne pare, chi l’amerà di più? Colui al quale ha condonato molto, o colui al quale ha condonato poco? ».
Cerchiamo di capire le cause che ci han fatto perdere la gioia del perdono.
Anzitutto ci sono due religioni, molto diverse, fra cui dobbiamo scegliere. La prima è la religione di ciò che noi facciamo per Dio: sforzi, mortificazioni, sacrifici, pratiche e penitenze, tutte quelle meschine, tristi, povere cose, che noi facciamo per Dio. Ed è una religione meschina, triste, povera: non si desidera saperne di più, perchè non si desidera fare di più. Ed è già grazia che non lo si rimpianga! Certuni hanno, rispetto a Dio, una mentalità di benefattori astiosi.Quando considerano la loro vita si dicono:« Con tutto quello che ho fatto per Lui! »; e si domandano: « E Lui? che cosa ha fatto per me? ».
All’indomani della Settuagesima, per una volta tanto, i cristiani hanno delle domande da fare sul Vangelo, che è quello degli operai dell’ultima ora. Se si credessero peccatori (beati i peccatori!), questo Vangelo li rallegrerebbe: non è mai troppo tardi per far bene — Dio s’aspetta sempre tutto da noi — nulla è mai definitivamente perduto — potete ancora far della vostra vita un magnifico successo, e delle vostre colpe delle felici colpe. Ma ahimè, si credono giusti, e son gelosi di quelli che si conquistano il cielo a così poco prezzo! Questo prova soltanto che non hanno mai conosciuto il Dio che pretendono di servire. Se lo conoscessero si sentirebbero così felici, così privilegiati di aver potuto vivere e lavorare in intimità con Lui fin dalla loro giovinezza, che sarebbero pieni di compassione verso questi ultimi chiamati, e supplicherebbero essi stessi il Padre di famiglia di dar loro lo stesso salario, di compensare con la gioia e la tenerezza della sua accoglienza la tristezza di una lunga separazione.
Il loro scandalo davanti alla generosità del Maestro è ciò che li condanna — perché prova che l’hanno servito male, conosciuto male, che non sono stati veramente chiamati, e che sono, loro, gli operai della dodicesima ora!
L’altra religione è quella delle cose che Dio fa per noi, delle grandi cose che egli opera nella nostra miseria, la religione dei « mirabilia Dei », dei prodigi di tenerezza e di misericordia che ha inventato per la nostra salvezza. Questa religione qui, non la si conosce mai abbastanza, si desidera sempre saperne di più, non si finisce mai di rallegrarsene. È la religione del Magnificat, del Gloria, del Credo, del Benedictus, dell’Eucarestia: è veramente cosa degna e giusta, conveniente e salutare lodarti, benedirti, renderti grazie in ogni tempo e in ogni luogo… Facciamone l’applicazione alla Penitenza.
Nella prima religione, confessarsi vuoi dire fare l’esame di coscienza, rientrare in se stessi, far l’inventario dei peccati: tutte cose poco allegre. Poi, si entra nell’armadio e si dicono a qualcuno che non si conosce o che si conosce anche troppo, delle cose che si preferirebbe non dire. E poi si fa la penitenza! Ma no, dimenticate giusto l’essenziale. In questo modo vi confessate come Giuda! Lo sapete che anche Giuda si è confessato? È rientrato anche lui in se stesso, povero disgraziato (e non ne è più uscito!), ed è stato divorato dal rimorso. Ha preparato la sua confessione ed è entrato nel confessionale. Sì, è andato al Tempio, dai sacerdoti (per disgrazia non ha trovato che dei farisei senza misericordia), ha fatto la sua confessione: « Ho peccato, ho tradito il sangue innocente! », e ha fatto la penitenza: ha restituìto i trenta denari (pochi cristiani fanno altrettanto…). Ma è stata una cosa così triste, che è uscito di là per andare a impiccarsi. Non ha tro vato nessuno. Giuda si è impiccato perché non ha incontrato uno sguardo di misericordia grande come il suo peccato.
Fate il confronto con la confessione di Pietro. Pietro non ha fatto l’esame di coscienza e neppure si è confessato; era giusto sul più bello del suo rinnegamento, asservito a delle serve, smarrito di paura e di balordaggine. Ma ha incontrato il Signore. Ha visto Gesù umiliato, oltraggiato attraversare il cortile di Caifa. Lo sguardo di Gesù ha attirato il suo: « Povero Pietro, che cosa stai combinando? In quale altro vespaio ti sei andato a cacciare? Su, non startene lì! Ritorna! È troppo triste! Saresti troppo infelice. Io ti amo, Io ti perdono ». E Pietro è stato proiettato fuori del suo peccato; non ha più potuto continuare, si è domandato come avesse mai potuto fare una cosa simile. Ha pianto tutte le sue lacrime, ma, più che lacrime di pentimento, lacrime di stupore di essere stato tanto amato.
Sì, ci confessiamo come Giuda. Non troviamo nessuno capace di risollevarci e di liberarci. Così si spiega come l’intento della maggior parte dei cristiani, quando si confessano, sia quello di « saldare il conto ». Essere in regola col peccato, e in regola con Dio! La confessione per loro è una specie di lavanda, un’aspirina spirituale per i mali di coscienza, un mezzo per rimettersi in pari. Sono talmente incentrati su ciò che loro fanno per Dio, e la confessione riesce loro così sgradita, che pensano, facendola, di pagare la loro assoluzione. (Notate bene che non esiste un Sacramento della confessione; il vero nome è Sacramento della Penitenza — ma per noi la « confessione » è passata in primo piano). Invece di pensare a Dio, di meravigliarsi della sua misericordia, di associarsi alla Sua gioia di perdonare, anche durante l’esortazione del sacerdote che cerca di svegliarli a Dio continuano a rimestare nella coscienza e interrompono di tanto in tanto il confessore per presentargli trionfalmente qualche nuova raschiatura di peccato. « Ma lasciate andare, figlia mia, pensate a Dio, non pensate più alle vostre colpe! ». « Ah, padre, preferisco dirlo. Son più tranquilla così, voglio essere in regola ». Diffidano talmente di Dio che lo credono capace di serbar loro rancore se omettono qualche colpa per inavvertenza. E prendono delle precauzioni contro Dio nell’atto stesso in cui si affidano alla sua misericordia. C’è stato anche qualcuno che mi ha detto: « Così almeno, non mi si potrà più dire niente! ». Anziché aprirci a Dio, anziché farcelo conoscere e attaccarci a Lui per sempre, la confessione dovrebbe per alcuni soltanto far sì che Egli non abbia più niente a ridire…Molti cristiani ragionano così: « Di due cose l’una. O la confessione non serve a niente, e allora è inutile confessarsi. Oppure serve a qualcosa e allora non dovrei sempre avere le stesse cose da confessare ».Rispondo loro: « Vedo dove vuoi arrivare: tu vuoi confessarti per non doverti più confessare. Vuoi servirti di Dio per poter fare a meno di Lui. Utilizzare Dio perché ti aiuti a costruire quella statua d’integrità morale che è la tua vera ambizione; allora potrai congedarlo: ‘Grazie, te ne puoi andare,mi hai servito bene; non ho più bisogno di Te ».Ma lo scopo della penitenza, non è anzitutto morale: è religioso. La penitenza è un incontro col Signore che t’insegna che Egli è vivo, ti ama e ti perdonerà sempre, che t’insegna fin dove giunge l’amore del Padre per te
« Se non fossimo peccatori, se non avessimo assai più bisogno di perdono che di pane, non potremmo mai giungere a conoscere il fondo del cuore di Dio ». E allora vi domando: che cosa preferite? Non peccare, ma non conoscere l’amore di Dio, oppure peccare ma sapere fino a qual punto Dio vi ama? La domanda può sembrare strana! Formuliamola meglio: « Che cos’è che vuoi in fondo: esser contento di te o esser contento di Dio? ». Giungerai in cielo solo perché sarai contento di Dio, tutto stupito del suo perdono, desideroso di passare tutta l’eternità col tuo Confessore! Non arriverai mai in cielo che come un povero peccatore a cui Dio ha fatto misericordia. I tuoi supposti meriti ti sarebbero piuttosto d’intralcio. La grazia della perseveranza finale essendo gratuita, nessuno può contare di meritarla: la dobbiamo tutti sperare con piena fiducia solo dalla misericordia di Dio. Santa Teresa del Bambino Gesù diceva prima di morire; « Se avessi commesso i peggiori delitti, avrei in questo momento la stessa fiducia che ho nella misericordia di Dio ». Se ne andava in cielo come una povera. Il povero ha le mani vuote, ma aperte. Non piene, ma neanche vuote, contratte, disperatamente chiuse. Vuote e aperte. Il povero non è un pusillanime, ma un magnanimo. Aspetta tutto da Dio. E perciò canta i! Magnificat. Se le cose stanno così, allora prevedo per voi ancora un lungo avvenire di confessioni, una bella carriera di peccati e di perdoni prima che arriviate a penetrarvi, a lasciarvi penetrare dalla gioia di Dio che vi perdona. Intendiamoci: non intendo dire che dobbiate sempre commettere le stesse colpe. Certo, vi ritroverete sempre peccatori e ne avrete coscienza sempre più chiara a misura che vi avvicinerete a Dio. Ma, forse, cesserete di commettere quelle colpe umilianti e inveterate solo il giorno in cui non vi annetterete più tanta importanza, il giorno in cui sarete abbastanza distaccati da voi stessi da non provare più quell’amaro dispetto, quella cattiva vergogna, quell’angoscia che ora provate per aver peccato; il giorno in cui amerete Dio abbastanza per lasciarvi invadere dalla gioia, dalla tenerezza e dalla bontà con la quale Egli ve le perdona.
Credo che in occasione della maggior parte delle nostre confessioni il Signore vorrebbe dirci:« Ma sta’ zitto, ferma il grammofono. Ascoltami. Smettila di preoccuparti di te. Non vorresti prestarmi un po’ di attenzione? Sei persuaso che ti amo abbastanza, che ho abbastanza sofferto per te, che mi stai abbastanza a cuore, che il mio amore per te è abbastanza vivo da indurmi a cambiare la tua vita, riempire la tua vita, rallegrare e rinnovare la tua vita? Sei persuaso che posso renderti tanto felice con Me che tu non abbia più bisogno di peccare, e neppur più voglia di peccare? >> Credo che molti di noi sarebbero colti alla sprovvista e scoprirebbero che veramente i loro desideri non arrivavano a tanto. Erano semplicemente venuti per assicurare in tutta pace la continuazione delle loro relazioni amichevoli ed ecco che il Signore fa loro una proposta strabiliante; credevano di poterlo accontentare facendo passare attraverso la grata del confessionale gli spiccioli delle loro colpe, e il Signore, ina-spettatamente, esige addirittura il portafoglio. Resteremmo interdetti, ci spaventeremmo nel renderci conto dei cambiamenti che un intervento del genere porterebbe con sé, ci troveremmo impreparati alla grazia che credevamo di essere venuti a chiedere. C’è veramente posto per Lui nella nostra vita? È il Signore che fa tutto nelle nostre penitenze! Dio solo sa perdonare i peccati! Il Signore soltanto ha saputo riconciliare san Tommaso, ha saputo fare della sua colpa una felice colpa. Anzitutto, è Dio che chiama. Ha tanto voglia di perdonarci che questo desiderio finisce per straripare dal suo cuore nel nostro e ispirarci un po’ di voglia di essere perdonati. La reazione nostra a una colpa, è il cattivo umore, il ritirarci in noi stessi, la disperazione. Ce la prendiamo con Dio, ce la prendiamo con noi, ce la prendiamo con tutti! Adamo dopo la colpa non aveva nessuna voglia di entrare in un confessionale. Si è rifugiato il più lontano possibile da Dio, dietro il suo riparo di foglie. Ed è Dio, come sempre, che è venuto a cercarlo: « Adamo, dove sei? Non startene lì! Torna! Tanto lo sai che ti chiamerò con tanta pazienza e tenerezza che finirai per venire. E allora vieni subito! Non montarti sulla tua colpa. Esiste una remissione dei peccati, ed è una cosa tanto più importante! ». In secondo luogo, è Dio che ci mostra le nostre colpe. Non possiamo riconoscerci peccatori che nella luce di Dio. Il peccatore è cieco e sordo. Peccare è diventare « tenebre », e le tenebre non sanno di essere nere: il peccatore non si vede peccatore perché è una cosa sola col suo peccato.
Il primo effetto dello Spirito Santo nelle nostre anime è appunto questo: ci convince di peccato (Gio. 16, 8). Un segno che siete ispirato dallo Spirito Santo? Se entrate in un confessionale. In genere non ci vuole meno dello Spirito Santo per indurvi a farlo! Ecco perché cominciate le vostre confessioni chiedendo al Padre di benedirvi perché avete peccato! ». Dite forse: « Punitemi perché ho peccato (ciò sarebbe logico dato il triste concetto che avete di Dio e della penitenza), dite forse biasimatemi, riprendetemi? ». No, dite: « Padre, rallegratevi con me, incoraggiatemi, ho ricevuto una grazia rarissima: mi sono riconosciuto peccatore! ». E il sacerdote vi da una benedizione che — non so se l’avete notato — è simile a quella che da al diacono prima che legga il Vangelo. Venendo a chiedere il perdono delle vostre colpe, adempite infatti all’ufficio del diacono e cioè annunciate la Buona Novella del Vangelo:esiste la remissione dei peccati! Voi professate, « confessate », la vostra fede nella misericordia del Redentore. Non si è mai conosciuto Dio senza riconoscersi peccatori. « Allontanati da me. Signore, perché sono un peccatore ». Ma nel momento stesso in cui vi vedete peccatori, cominciate a conoscere Dio. Dio ci svela le nostre colpe con infinita tenerezza, non per rinfacciarcele o umiliarci, ma come un buon medico, una buona infermiera, che scoprono una piaga solo per curarla, che fanno male solo per guarire. Ce le fa vedere nel suo modo delicato e discreto: invitandoci a far meglio! Allora vediamo, per contrasto, la distanza fra ciò che facciamo e ciò che Egli ci propone, e non possiamo fare a meno di preferire in noi l’io che Egli ama all’io nel quale ci siamo trasformati ascoltando noi stessi. È una gioia vedere le proprie colpe: è segno che Dio opera in noi, che ci lavora, che non ci da tregua — che Egli è la nostra vocazione vivente alla santità. Ed è anche segno che ce le ha fatte superare: se le vediamo è perché abbiamo cominciato a cambiare, è perché ce ne siamo in qualche modo staccati; abbiamo dovuto allontanarcene un po’ per poterle vedere. E allora dovremmo incominciare a gridare di gioia, di gratitudine, di fiducia: Dio parla in noi, Dio si fa sentire, Dio agisce — e continuerà a farlo, siate certi. Noi non siamo fedeli, ma Lui lo è. Noi non siamo perseveranti, ma è perseverante Lui, compirà in noi tutto ciò che ha cominciato. E dovremmo finire con una preghiera: non mi lasciare mai in pace, Signore!
Attenzione: bisogna prevenire una confusione pericolosa. Spero che per la gioia di vedersi peccatore a nessuno venga la tentazione di completare il proprio assortimento di peccati, che nessuno, sedotto dalla Beatitudine dei peccatori (« Beati coloro a cui si perdona molto… »), voglia entrare in preoccupante rivalità con peccatori e peccatrici qualificati. Oh, non temete, avete tutti a disposizione tutto il materiale occorrente, non c’è proprio da essere gelosi dei vicini. E non crediate che io possa indurvi a esaurirlo! Non avete niente da invidiare a nessuno. Siamo tutti peccatori a sufficienza! La grazia è di rendersene conto. Ma siamo tutti in una specie di « coma spirituale ». Sapete, in quello stato fisico che tiene dietro ai grandi choc: si perde la coscienza, non si sente più niente, non si soffre, si crede di star bene… e si è sul punto di morire. Spiritualmente, niente è più diffuso e niente è più pericoloso di quest’accecamento, di questo non riconoscersi peccatore. « Io non sono un santo, dicono certuni, ma neppure ho commesso dei grandi delitti. Sto nella via di mezzo ». Ahimè, il Signore non è venuto per la via di mezzo, è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto. Classificandovi nella via di mezzo, vi escludete dalla salvezza. No, la grazia vera è quella di vedersi peccatori di riconoscere i propri « innumerevoli peccati offese e negligenze », le proprie mancanze di fede, di amore e di fiducia, ma di vederle in una luce di misericordia e di compassione che ve le renda sopportabili, illuminandovi ben più sulla tenerezza del Signore che sulla vostra indegnità. E infine, è il Signore che perdona. È così felice di perdonarci da suscitare anche in noi un pò di gioia di esser perdonati. È segno di perdono che la sua gioia di perdonarti si sostituisca in te all’amarezza di aver peccato. Dio solo sa perdonare i peccati! Li perdona così bene che t’induce a perdonare a te stesso di aver peccato, ti toglie l’umiliazione, lo sterile scontento delle tue colpe; ti penetra così a fondo col suo perdono, che tu perdoni a te stesso e perdoni a Lui (ce la prendiamo infatti con Dio per le nostre colpe!) di averle commesse.
Dal vangelo della gioia di Louis Evely
Bisogna essere così pieni di Dio, da non essere più vivi che alla sua gioia! Bisogna che la gioia di Dio diventi così potente in noi che non ce ne importi più niente delle nostre disgraziate colpe, che le dimentichiamo come le dimentica Lui. Che non ci sentiamo più in contrasto di idee e di sentimenti con Dio neppure a nostro riguardo, e che ci amiamo e ci perdoniamo come ci ama Lui. Questa è la gioia della penitenza.Tommaso l’ha conosciuta, lui che non si è mai sentito più amato e più felice che sotto il mantello del perdono del Signore dove ha sondato le incredibili dimensioni del suo amore. E l’ha conosciuta Pietro, che è diventato capo di Chiesa dopo aver commesso il suo più grande peccato. La sua penitenza è stata di diventar papa. « Saprai confessare ora, saprai perdonare i peccati degli altri adesso che ti ho insegnato come si fa. Anche tu saprai fare delle colpe degli altri delle felici colpe ». E così pure la samaritana, che ha fatto della sua confessione il suo mezzo di apostolato: « Venite a vedere, c’è qui uno che mi ha detto tutto ciò che ho fatto. Uno che mi ha rivelato le mie colpe con tanta tenerezza e rispetto che non sono stata mai così felice. Venite a vedere! Venite a provare anche voi. Forse farà anche a voi il bene che ha fatto a me. Venite tutti a confessarvi! ». Fate anche voi così? Ci resta però da esplorare una delle dimensioni di questo perdono: il perdono di Dio deve diventare così vivo e operante in noi da indurci a perdonare a tutti gli altri. « Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo… ». Uscendo dal confessionale, dovremmo gettarci le braccia al collo gli uni con gli altri. Non avete ricevuto come si deve il perdono, se non sapete restituirlo. Rifiutarlo agli altri è segno che non vi siete aperti del tutto al vostro proprio perdono
Una cosa sola Dio non può perdonarvi: che non perdoniate agli altri. L’inferno è il luogo dei perdoni rifiutati. Non ci sarebbe inferno se l’uomo imitasse la misericordia di Dio. Questa dimensione comunitaria del sacramento della penitenza si è oscurata. L’uomo isolato è incapace di esaminare la propria coscienza, di pentirsi e di riparare le sue colpe. Dev’essere aiutato dalla comunità dei fratelli. La penitenza si fa « in Chiesa ». Una discussione coi Protestanti può illuminare al riguardo. I Protestanti (e molti cattolici ) obiettano: « Ma perché avete sempre bisogno di un uomo fra Dio e voi? Il prete è un intermediario, se non addirittura uno schermo. Perché non vi rivolgete direttamente a Dio? Io chiedo perdono a Dio, che è in cielo, e non ho bisogno di tutte queste mediazioni umane ». Già, ma per noi è sulla terra, ha un corpo, delle membra, nelle quali possiamo ferirlo. Al Dio del cielo, tu non hai fatto niente: non l’hai ferito lassù nel cielo. Ma Dio sulla terra, Dio nelle sue membra, tu l’hai ferito, lacerato, urtato. E allora abbi l’umiltà e la sincerità di andargli a chiedere perdono là dove l’hai offeso. Il sacerdote non è che il rappresentante della comunità; è il testimone della Chiesa (e della Chiesa particolare dell’offensore; ecco perché la sua giurisdizione è limitata). Egli ci perdona in nome dei nostri fratelli: « Ritorna, abbiamo bisogno di te nella Chiesa. Tu ne eri divenuto un membro paralizzato e paralizzante. Rientra nella vita della comunità. Festeggeremo il tuo ritorno ». Ahimè, quando assolvo un povero diavolo nel mio confessionale solitario, mi domando a quale comunità lo restituisco. Non ci sono dei fratelli presenti per aiutarlo e accoglierlo. Abbiamo disumanizzato i Sacramenti, e questa è la ragione per cui non divinizziamo più degli uomini. Il perdono, l’amore e la gioia dei nostri fratelli dovrebbero essere il Sacramento, il segno sensibile dell’amore, della gioia e del perdono di Dio.
San Paolo è il contrario di san Tommaso: « Tommaso credeva di non credere; Saulo era peggiore: credeva di credere. Sicuro di sé, fiero della sua religione tradizio-nale, detesta tutte le innovazioni. Una fede viva ci mette in contatto con Dio attraverso le formule della fede: queste, ben usate, ci fanno conoscere il Dio che oltrepassa tutte le formule. La fede morta, invece, sostituisce Dio con parole e concetti che manipoliamo a modo nostro. Figlio di ebrei, Saulo di Tarso era stato educato in un clima di schietta mentalità giudaica. Aveva compiuto i suoi studi a Gerusalemme, presso il più celebre teologo del tempo, Gamaliele. Membro della setta dei Farisei, di una scrupolosa fedeltà a tutte le prescrizioni della legge, Saulo era stato sempre persuaso di avere la vera fede nel vero Dio… Perciò, quando il Figlio di Dio apparve nel mondo, Saulo fu profondamente scandalizzato. Un Dio che si fa uomo, che si affatica e lavora, un Dio che soffre e che muore della morte dei criminali? Assurdo! Saulo aveva le sue idee su Dio, ciò che Gesù affermava non poteva quadrare con la dottrina ortodossa che lui, Saulo, possedeva a fondo. Indignato per una eresia così degradante, da quando aveva conosciuto Gesù nella persona dei primi discepoli l’aveva perseguitato con rabbia. Durante l’assassinio di Stefano , è là ad approvare l’esecuzione. Più tardi lo vediamo dare la caccia ai cristiani, correndo di casa in casa per arrestare uomini, donne, bambini e trascinarli in prigione.<< Saulo non spirava che minacce e morte….>> Il Signore aveva convertito Tommaso prendendolo fra le braccia. Ma per Saulo ci vorrà una mazzata. Il Signore gli concederà un momento di <> un attimo di raccoglimento. Allora, appena si sarà chetato, appena si sarà fermato, egli vedrà il Signore, lo sentirà e lo riconoscerà. Siamo in molti ad aver bisogno di una tegola sulla testa per riprendere coscienza della esistenza del Signore!
In piena corsa apostolica, Paolo è abbattuto, atterrato, accecato e abbagliato (come già i discepoli di Emmaus, dall’istante in cui conosce il Signore, sente di non aver più bisogno di vedere) Da una sola parola, come in un lampo, ha afferrato e compreso tutta la religione cristiana: « Io sono Gesù che tu perseguiti ». Ha afferrato il mistero dell’Incarnazione, l’identificazione permanente e definitiva di Gesù con i suoi discepoli, la realtà del Corpo Mistico di Cristo di cui sarà l’araldo, la buona novella che Dio è per sempre presente, vivo in mezzo a noi, e che ci ama fino a soffrirne. Prima di tutto è stato chiamato per nome: Saulo! Dio lo conosceva, lui, Saulo! Dio s’interessava a lui personalmente! Dio l’attendeva, aveva bisogno di lui, Dio non era felice senza di lui! Ecco che Dio non era soltanto una dottrina che si studiava e veniva imposta, e nemmeno un Essere supremo, infinitamente grande, impassibile e inaccessibile: Dio era sulla terra. Dio viveva fra noi, e non lo si poteva misconoscere senza scontrarsi con Lui. Un Dio capace di soffrire! – proprio ciò che nel messaggio cristiano aveva piu provocato l’ira di Saulo, gli diveniva ora evidente nel più personale dei rapporti: lo sono Gesù che tu perseguiti. Dio aveva sofferto. Dio aveva cessato di soffrire. Dio ci amava con una tenerezza tale, che si era esposto per sempre ai nostri insulti e ai nostri rifiuti. Per la maggior parte di noi, Gesù è morto. Sì, certo, è risuscitato; ma è lassù in cielo, dove lo si incensa; trasferito lassù, giubilato, pensionato per servizi resi. Ma per Paolo è qualcuno che è vivo, qualcuno in cui è incappato, qualcuno che egli ha ferito, qualcuno che soffre ancora e che ha bisogno di noi.
Terribile pazienza di Dio! Prodigiosa umiltà del Cristo che sollecita invano ciascuno di noi, che si lamenta: « Perché mi perseguiti? ». Quando è che saremo presi dalla paura? A quando uno choc di sorpresa e di spavento? Tutte le mattine il Corpo di Gesù è nelle nostre mani, offerto per noi. Il Suo sangue, offerto e rifiutato, si riversa su ogni altare del mondo e noi lo lasciamo scorrere inutilmente per… mancanza di tempo, per mancanza di desiderio di raccoglierlo. Tutti i giorni Gesù presente in ciascuno dei nostri fratelli, misconosciuto, maltrattato, disprezzato ! Gesù, che s’intenerisce per noi fino alle lacrime, Gesù sensibile a tutto, al più debole sorriso, al più impercettibile rinnegamento di noi stessi! Presente a ognuno di noi come a quei santi, a quelle sante che lo vedevano con gli occhi, commovevano il suo cuore, toglievano dalla sua fronte le spine! Non potremmo credergli senza visioni? Perché sempre questo bisogno di vedere ciò che si sa bene, ciò che si sa al punto di essere stanchi di saperlo? Se qualcuno potesse credere come se avesse visto! Dio è pura bontà, dono senza ripresa, dono che rimane offerto, che non teme di essere accettato, che non teme di essere respinto. Dio sempre vicino e sempre ignorato, urtato dai nostri scatti, ferito dai nostri lamenti ingiusti e dai nostri irritati rifiuti per la sua insistenza. Come temiamo i suoi interventi! Come giochiamo malvagiamente di astuzia per evitarlo! Come ci dibattiamo contro di lui ogni volta che ci prende per mano! Ognuno di noi oppone al dono della Sua vita un’ostilità ostinata e sorniona, un’incessante critica, una diffidenza disperata il cui nome è blasfemo. Gesù paziente nel dolore, in agonia fino alla fine del mondo, sempre vivo così come si è rivelato a noi.
Quanti cristiani aspettano ancora questa rivelazione di san Paolo? Amano Dio di un amore scoraggiato, di un amore che si crede senza ricambio, di un amore che non osa dichiararsi, che non pensa di essere gradito, che non ha l’audacia di credere di potergli dar gioia. Questo amore di dovere, questo amore che immagina di non essere condiviso, pesa su di loro anziché sollevarli. Ci presentiamo davanti a Dio e, oppressi dal suo silenzio, abbiamo subito voglia di fuggire; ne abbiamo subito abbastanza di parlare da soli, di restare soli, di amare da soli. Ma se un giorno capissimo che Dio ci ama, che è Dio che ci ama, senza che noi neppure abbiamo cominciato ad amarlo, che è Lui che si rallegra della nostra venuta, che tiene alla nostra presenza, che trova la sua gioia nei nostri cuori, allora la nostra religione cambierebbe.Se Dio ci ama così, se è pieno per noi di tenerezza, di serenità, di bontà, se gioisce del nostro affetto e soffre delle nostre dimenticanze, allora possiamo fare qualcosa per lui, possiamo rallegrarlo, onorarlo, tenergli compagnia perché se ne compiace, metteremo tutta la nostra gioia a esercitare il potere che ha voluto darci su di Lui. Amare qualcuno vuoi dire infatti questo: dargli potere su di voi. Dire che Dio vi ama, è ripetere una frase talmente trita che non impressiona più nessuno. Bisogna dire e pensare: Dio ci ha dato potere su di Lui. Si ha potere su coloro che ci amano — potere di rallegrarli e potere di farli soffrire. Che cos’è che fa la gioia di essere amati, di essere fidanzati, se non la certezza che abbiamo di poter rendere felice qualcuno, di farlo sorridere, d’intrattenere con lui un continuo scambio di gioia, di emozione, di gratitudine? È una gioia usare di questo potere, ma ahimè, siamo fatti in tal modo che spesso amiamo per gioco, per far soffrire, per sentire e far sentire il nostro potere, per esercitarlo
Ebbene, la visione di Paolo è stata la rivelazione del terribile potere che Dio gli aveva dato su di Lui. Tutto ciò che Paolo aveva fatto subire ai cristiani, il Cristo lo aveva sofferto Lui. Il Cristo era in balìa di Paolo, a sua disposizione, nelle sue mani, senza difesa. A partire da questo momento, Paolo ha capito la sua vocazione; la sua strada era aperta: sapeva ciò che stava per riempire la sua vita: tutto quel potere che aveva su Dio e di cui si era servito per perseguitarlo, ora l’avrebbe impiegato per rendergli onore, per servirlo, per rallegrarlo. Ecco la rivelazione che ci occorre: stiamo a cuore a Dio, noi, poveri come siamo, sciocchi, insignificanti, volgari. Dio ci ama, Dio dipende da noi. Dio non è felice senza di noi, senza di me! Dio ci sorride, Dio gioca, scherza dolcemente con noi come un padre col figlio, come un amico con l’amico. Non dovete aspettare per andare a pregare di aver voglia di farlo (potreste attendere troppo!). Dovete pensare che ciò gli fa piacere e che Egli vi aspetta in ogni momento. Dovete comunicarvi non perché ne sentite la voglia, il gusto (non siete mica in una pasticceria, per consultarvi su ciò che vi piace!), ma perché Lui desidera nutrirvi e unirsi a voi.
Paolo ha imparato qualche altra cosa. Questa rivelazione di Dio si è accomoagnata, come sempre, a una rivelazione su di lui, Paolo. « È duro per te recalcitrare contro il pungolo ». Quando Paolo è stato messo in presenza di quel Dio che credeva di servire con tanto zelo (faceva dell’azione cattolica in un modo un po’ violento!…), non soltanto non l’ha riconosciuto: « Chi sei tu, Signore? », ma si è anche accorto di resistergli. Si è accorto che per tutto il tempo in cui aveva creduto, in buona fede, di obbedirgli, non aveva fatto che recalcitrare.Tutto il lavoro apostolico di Paolo, tutta la sua dedizione, la sua intransigenza religiosa, non erano state altro che una resistenza. Era pieno di se stesso, e si credeva pieno di Dio!
Saulo non faceva che lottare contro il Dio che immaginava di servire. Come S. Tommaso anche lui ha preso coscienza in quel momento di essere chiamato, spinto a credere da molto tempo. Si è reso conto che il suo zelo, il suo fanatismo, la sua violenza non erano che il segno esterno dell’intensità della sua ribellione, del suo sfor- zo per ridurre al silenzio una voce interiore insopportabile. Non era Dio che Saulo difendeva perseguitando i cristiani: cercava, in realtà, di difendere se stesso contro Dio. Il giorno di Damasco fu quello in cui accettò di ascoltare una voce che parlava da sempre nelle profondità del suo essere. Se il Signore apparisse a noi, credete che ci direbbe qualcosa di diverso? « Perché mi perseguiti? Perche mi resisti così? Perché cerchi di corazzarti contro di me con tutte queste buone ragioni? Non ti è duro recalcitrare al pungolo? Non soffri di farmi tanto male? ». Qual è la resistenza che indurisce allo stesso modo ciascuno di noi? L’abbiamo individuata questa paura, questo astio, questa rivolta, questo desiderio inappagato e inconfessato, questa sofferenza, questo travaglio, tutto quell’insieme di cose che ci serve di pretesto per dispensarci di andare a Dio? Sappiamo bene, in fondo, che Dio ci attende al di là di questo « ostacolo », o meglio, proprio in ciò che ci appare come un ostacolo. Sentiamo bene che esso non è altro, in realtà, che il mezzo preparatoci da Dio per permetterci di scegliere Lui in piena libertà. Ma noi cerchiamo di soffocare questa voce che ci disturba. Recalcitriamo. Cerchiamo dei diversivi: non soltanto lo stordimento dei piaceri — questo lo sappiamo — ma l’attivismo, la fe- deltà ostinata alla lettera, il lavoro, la « virtù », tutto ciò che Saulo inventava già ai suoi tempi per resistere a Gesù Cristo
Bisognerà pure, tuttavia, che un giorno ci decidiamo come Saulo ad ascoltare la voce di Dio proprio là ove non vorremmo ascoltarla, che accettiamo di riconoscere il Signore là ove avevamo giurato di non volerlo mai vedere. « Tremante e preso da spavento, disse: Signore, che vuoi che faccia? ». Il Signore gli rispose: « Alzati ed entra in città, là ti sarà detto che cosa devi fare ». Lo manda, come sempre, da un altro. A lui, che sarebbe divenuto un giorno san Paolo, che avrebbe evangelizzato le nazioni, a lui che il Signore onorava di una visione e convertiva in modo così personale e spettacolare, a lui era ordinato di andare a mendicare le direttive di un qualunque discepolo chiamato Anania, la cui sola superiorità era quella di appartenere alla Chiesa. La mano del Signore l’aveva accecato, ma solo dalle mani di un uomo di Chiesa — oscuro e piuttosto pavido — avrebbe riacquistato la vista. « Lo presero per mano e lo condussero a Damasco, ove per tre giorni rimase senza vedere…». La prima cosa che gli è richiesta: lasciarsi condurre, rinunciare alle proprie iniziative che l’avevano fino allora così male ispirato, accettare di non vedere più nello stesso modo di prima, fare un ritiro di tre giorni. E Paolo, il tutto fuoco, l’impetuoso, accetterà senza recalcitrare. Fa la sola cosa che può fare, a sola che il Signore aspetta da lui in questo momento: prega.
IL Signore disse ad Anania:<
La fede non è un capitale che riceviamo al battesimo e sul quale possiamo vivere di rendita. La fede è una realtà viva e sempre nuova, come Dio al quale s’indirizza. È l’atto di fiducia in Dio che facciamo ogni giorno e in ogni momento del giorno, sforzandoci di vederlo in tutti gli avvenimenti, in tutti gli uomini che ci avvicinano, in tutti i pensieri che sorgono, in tutti i sentimenti che si svegliano nei nostri cuori. Ciò significa che importa poco che l’avvenimento debba riuscirci propizio o infausto, che una persona ci sia simpatica o antipatica, il pensiero sia interessante o noioso, il sentimento nobile o meschino. Dio ci parla così nella catastrofe come nel successo, in un importuno come in un amico, in un santo come in un peccatore. Non abbiamo da fare una scelta nel tessuto della nostra vita per stabilire che il tale elemento è degno di fede e non il tal altro: bisogna scoprire Dio in tutta quanta la nostra vita. La fede fa sì che il mondo e la vita ci lascino intravedere Dio, ci esprimano Dio, ci rivelino Dio. Fa di noi i veri contemplativi: coloro per i quali Dio non è soltanto un’apparizione o un incontro casuale, ma un compagno e un amico.
MARIA
Come fare un ritiro sulla gioia, senza parlare della Beata Vergine Maria, la Vergine delle Beatitudini? « Beata, tu che hai creduto » « Beata colei che ascolta la parola di Dio e la custodisce ». Maria ha avuto un’apparizione nella sua vita, una sola: la sua Annunciazione, e questa le è bastata per sempre. Nonostante il silenzio dei Vangeli, alcuni « pii » esegeti suppongono che Gesù risuscitato sia apparso a sua Madre. Io credo che, pensando così, manchino di fedeltà a Maria ancor più che al Vangelo. Le apparizioni di Gesù risvegliano ed educano la fede degli Apostoli. Ma alla fede di Maria non mancava niente. L’Annunciazione l’ha dispensata per sempre da nuove apparizioni. Come avrebbe potuto colei che la cugina Elisabetta, all’aurora della salvezza, proclamava già « beata per aver creduto », non meritare pienamente la beatitudine finale: « Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto »? La fede, si è detto, è restare fedeli nelle tenebre a ciò che si è visto nella luce. Maria ha ascoltato tanto bene la parola dell’angelo che l’ha conservata nel cuore e se ne è nutrita per tutta la vita: ha sempre creduto con tutta l’anima che « Egli salverebbe il suo popolo », che « il suo regno non avrebbe fine », che « niente è impossibile a Dio ». Maria è la sola che la morte del Cristo non ha, non dico scoraggiata, sarebbe troppo poco, ma neppure separata da Lui. Come all’Annunciazione aveva rappresentato da sola tutta la Chiesa per ricevere il Cristo nella fede, così, alla di Lui morte, rappresentò ancora da sola tutta la Chiesa per accoglierlo nella sua fede. Sola lampada del Santuario, la sua fede non si spense. Fu il solo tabernacolo che non divenne una tomba. Durante la Passione e la Morte di Gesù, la Vergine ha sofferto quanto si può umanamente soffrire, ma conservando intatta la sua fede, la sua speranza, la sua fiducia totale nel Padre, nella necessità misteriosa, nella misteriosa efficacia di quanto stava accadendo, nel suo esito salvifico. Ricordava le promesse dell’angelo, la storia del popolo eletto, le profezie, e, se il loro avveramento la consumava di dolore, la fortificava insieme nella fede. Dopo la morte sul Calvario, seppellì il corpo oltraggiato del figlio con la pietà, la tenerezza, il rispetto infiniti che, una volta, giovane madre, aveva prodigato al fragile corpo del bambino che le era stato affidato. Lo sentiva così presente in sé che ebbe l’impressione di portarselo via, anziché di abbandonarlo là; niente la sfiorò della disperazione di Maria Maddalena quando non ebbe più neppure il Corpo del suo Signore. Egli poteva cessare di vivere nel suo proprio corpo, ma non nel cuore di sua madre.
Se ci fu un luogo al mondo in cui Gesù potè riposare e compiacersi « prima di risalire al Padre », fu certo la comunione con la madre sua. Se ci fu mai un cuore tutto bruciante di amore nel trovare nella Scrittura « passi che lo riguardavano », questo fu certamente il cuore di Maria. Conservava, meditava, confrontava avvenimenti e profezie e vi attingeva incessantemente nuova luce e nuova forza. Gesù risuscitò il terzo giorno dalla tomba, non per consolare sua Madre, non ce n’era bisogno perché essa era già tutta gioia e fierezza, ma per incamminare gli altri là dove Maria li attendeva in silenzio. E quando coloro ai quali il Signore era apparso sono accorsi tutti gioiosi da Maria per annunciarle questa buona novella, hanno capito, in quell’istante, che essa la sapeva già. Ognuno di loro potè misurare la propria fede, ritrovare la propria fede nella fede di Maria. Ognuno di loro capì che cosa fosse stata la propria fede paragonandola alla sua. Io credo che, a partire da questo momento, si è cominciato a capire il suo posto nella Chiesa.Tutti, a poco a poco, son venuti a stringersi intorno a lei; si son ritrovati in lei; si sentivano capiti. Durante i dieci giorni fra l’Ascensione e la Pentecoste, non si sono più allontanati da Maria. Stavano bene presso di lei: era un rifugio, un luogo di fede, era la Chiesa.E ha fatto tutto questo senza dire nulla.
Una vera presenza di Dio si sente e si comunica senza bisogno di parole. La regina degli Apostoli non ha mai predicato, né fatto dell’azione cattolica. Ma per trent’anni ha vissuto nella sua piccola casa con tanta riverenza ed amore che da questa casa è uscita la salvezza del mondo. Ha creduto che, nella sua esistenza, ci fosse qualcosa di sacro, di divino, e l’ha circondato di una fedeltà così perseverante, di una fede così totale che ha potuto crescere, svilupparsi, maturare in seno al suo focolare, e un giorno uscirne per salvare il mondo. E voi? Vivete, voi, nelle vostre case, nelle vostre famiglie, nei vostri impieghi con tanta fede e amore da non essere stupiti se un giorno dalla vostra casa, dal vostro ambiente, dovesse sorgere ciò che deve salvare il mondo di oggi? E un giorno, tutta la Chiesa si è trovata riunita intorno a lei, tutta la Chiesa si è ritrovata là dove aveva avuto inizio. Ognuno di noi ha lo stesso compito della S. Vergine, la stessa incredibile vocazione: mettere Dio al mondo, far che Dio viva nel mondo, fare che viva nel nostro mondo.
dell’Annunciazione ancor oggi volano sull’umanità, cercando un’ancella del Signore, un servo del Signore, che sia tanto semplice, tanto innocente, dalla fede così grande da poter credere che, anche per mezzo suo, il Verbo voglia farsi carne e abitare fra noi.Tutti protestano, ricusano, obiettano, si sentono indegni o troppo degni, sono troppo occupati o incapaci, celibi o mal maritati. Ma una volta, una fanciulla di quindici anni ha detto: « Ebbene, eccomi, non capisco niente, ma sta benissimo. Accetto di crederci ».Vi ha creduto. Ha creduto possibile che, senza far niente di straordinario, occupandosi delle faccende più umili, pregando, amando, soffrendo, a forza di pazienza, a forza di credere e di amare, un giorno la salvezza del mondo potesse venire da lei e che la sua casa potesse contenere comodamente tutta la Chiesa
L’ASCENSIONE (ultima stazione della gioia)
Il solo modo di fare dell’Ascensione una festa è di comprendere bene la differenza radicale che c’è fra una scomparsa e una partenza. Una partenza causa un’assenza. Una scomparsa inaugura una presenza nascosta. Con l’Ascensione il Signore non è partito, non ci ha lasciati orfani, si è stabilito per sempre fra noi là dove aveva insegnato ai suoi Apostoli a riconoscerlo: la Parola, i Sacramenti, il Prossimo. Se l’Ascensione fosse la partenza del Signore, dovremmo rattristarcene e rimpiangerlo. Il suo « entrare in cielo » sarebbe per noi come una specie di tumulazione. Ma il Signore rimane con noi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli. Con l’Ascensione, Egli entra a far parte della onnipotenza del Padre, è pienamente glorificato, esaltato, spiritualizzato nella sua umanità. E pertanto, è più che mai in relazione con ciascuno di noi. Demitizziamo! Quando diciamo che il Cristo si è assiso alla destra del Padre, non immaginiamo un trasferimento locale! Intendiamo esprimere, con questa immagine, un accrescimento di potere e di onore. D’altronde, dov’è il Padre? San Giovanni ci risponde: con noi, in noi, in questo mondo, per sempre: « Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui, e faremo dimora in lui ». Una dimora significa molto di più di una presenza. Un uomo è presente in una strada, al suo lavoro, ma non dimora che in casa sua. Dio non ha voluto avere che una « casa sua » e siamo noi!
Del resto, quando gli Israeliti dicevano: « Padre nostro che sei nei cieli… » intendevano con questo non una lontananza di Dio, un « orgoglioso isolamento », ma una posizione dominante dalla quale è possibile vedere e intervenire agevolmente in ogni punto della terra. Ebbene il Cristo, con la sua Ascensione, ha raggiunto quella efficacia infinita che gli permette di riempire tutto della sua presenza. San Paolo dice: « È salito al cielo al fine di riempire tutto della sua presenza » (Ef. 4, 10). « Racchiudere il Cristo nel cielo » è come limitarlo, perderlo. La sua Ascensione è un’ascensione in potenza, in efficacia: è dunque un’intensificazione della sua presenza, non un’ascensione locale che lo allontanerebbe da noi. Come non ha lasciato il Padre venendoci a salvare per mezzo dell’Incarnazione, così il Cristo non si è separato da noi ritornando verso il Padre. Non ha ristabilito le distanze. Ha soltanto, al contrario, ristabilito e assicurato la comunicazione.« Non state a guardare il cielo! » ma diffondete il suo Regno e la sua presenza compiendo in terra l’opera sua, dicono agli Apostoli gli angeli dell’Ascensione
Il Cristo rimane il personaggio più attivo e più presente della storia del mondo. Lo dice san Marco nel modo più incisivo, parlando dell’Ascensione. « Gesù fu assunto al cielo, di Dio ». siede alla destra. Ecco, pensiamo, l’abbiamo perduto. Ci ha lasciati. Egli troneggia per sempre lassù mentre noi gemiamo sulla terra. Ma Marco continua: << Gli Apostoli se ne andarono a predicare dovunque, coadiuvati dal Signore il quale confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano ». Che gioia: Egli è qui, sulla terra, con noi e non ci lascerà mai più, perché la sua presenza spiritualizzata ha raggiunto l’intensità e l’estensione che in sua presenza carnale non aveva potuto ottenere. Era vantaggioso per noi che se ne andasse secondo la carne perché lo potessimo ritrovare ovunque presente, nella preghiera e nell’azione, nei Sacramenti e nei nostri fratelli, nell’apostolo e nel pagano, nel confessore e nel peccatore, ovunque la sua grazia opera, libera e unisce