Messaggio di Medjugorje del 25 febbraio 2024

Messaggio di Medjugorje del 25 febbraio 2024

Cari figli!
Pregate e rinnovate il vostro cuore perché il bene che avete seminato porti frutto di gioia e di comunione con Dio. La zizzania ha preso molti cuori e sono diventati sterili. Perciò voi, figlioli, siate luce, amore e le mie mani estese in questo mondo che anela a Dio che è amore. Grazie per aver risposto alla mia chiamata.

 

 

Nei testi de “L’Evangelo come mi è stato rivelato”, di Maria Valtorta, ed. CEV, Gesù stesso, dopo il racconto degli avvenimenti, ci spiega la parabola del Seminatore:

 

Messaggio di Medjugorje del 25 febbraio 2024

 

  1. La parabola del seminatore.

A Corozim con il nuovo discepolo Elia.

4 giugno 1945. Mi dice Gesù mostrandomi il corso del Giordano, meglio, lo sbocco del Giordano nel lago di Tiberiade, là dove è stesa la città di Betsaida sulla riva destra del fiume, rispetto a chi guarda il nord: «Ora la città non sembra più sulle rive del lago, ma un poco in dentro nel retroterra. E ciò sconcerta gli studiosi. La spiegazione si deve cercare nell’interramento del lago da questa parte, dovuto a venti secoli di terriccio deposi­tato dal fiume e ad alluvioni e frane scese dai colli di Betsai­da. Allora la città era proprio all’imbocco del fiume nel lago, e anzi le barche più piccole, e nelle stagioni più ricche d’ac­que, risalivano per un buon tratto, fino a quasi l’altezza di Co­rozim, il fiume stesso, che serviva però sempre da porto e rico­vero sulle sue rive alle barche di Betsaida nei giorni di burra­sca del lago. Questo non per te, alla quale poco importa, ma per i dottori difficili. E ora va’ avanti».

 

Le barche degli apostoli, fatto il breve tratto di lago che separa Cafarnao da Betsaida, ammarrano in questa città. Ma altre barche le hanno seguite e molti ne smontano unendosi subito a quelli di Betsaida venuti a salutare il Maestro, che entra nella casa di Pietro dove… è da capo la moglie, che sup­pongo abbia preferito la solitudine al vivere fra i continui la­gui della madre verso suo marito. La gente, fuori, reclama a gran voce il Maestro, cosa che fa inquietare non poco Pietro, che sale sulla terrazza e arrin­ga cittadini o meno, dicendo che ci vuole rispetto ed educazio­ne. Lui, il suo Maestro, se lo vorrebbe godere un poco in pace, ora che l’ha nella sua casa, e invece non ha tempo e soddisfa­zione di offrirgli neppure un poco di acqua e miele fra le molte cose che ha detto alla moglie di portare, e brontola. Gesù lo guarda sorridendo e crolla il capo dicendo: «Sem­bra che tu non mi veda mai e che sia un caso essere insieme!» «Ma è così! Quando siamo per il mondo siamo forse io e Te? Nemmeno per sogno! Fra Te e me c’è il mondo coi suoi ma­lati, coi suoi afflitti, coi suoi ascoltatori, coi suoi curiosi, coi suoi calunniatori, coi suoi nemici, e noi non siamo mai io e Te. Qui invece Tu sei con me, in casa mia, e dovrebbero capirlo!». E’ proprio inquieto. «Ma non vedo diversità, Simone. Il mio amore è uguale, la mia parola è la stessa. Che Io te la dica a te in privato, o che la dica per tutti, non è lo stesso?». Pietro confessa allora la sua grande pena: «È che io so­no zuccone e mi distraggo con facilità. Quando Tu parli su una piazza, su un monte, fra tanta folla, io, non so perché, capisco tutto, ma poi non ricordo nulla. L’ho detto anche ai compagni e mi hanno dato ragione. Gli altri, voglio dire il popolo che ti ascolta, ti capisce e ricorda quello che dici. Quante volte ab­biamo sentito confessare da uno: “Non ho più fatto questo per­ché Tu lo hai detto”, oppure: “Sono venuto perché una volta ti ho sentito dire quest’altro e mi ha ferito il pensiero”. Noi invece… uhm! è come un corso d’acqua che passa e non si fer­ma. La sponda non l’ha più quell’acqua che è passata. Ne viene dall’altra, sì, sempre altra, e sempre tanta. Ma passa, passa, passa… E io penso con terrore che, se come Tu dici sarà, che verrà il momento che Tu non sarai più a fare la parte del fiu­me e… e io… Che avrò da dare a chi ha sete, se non serbo nep­pure una goccia del tanto che mi dai?». Anche gli altri appoggiano i lamenti di Pietro, lamentan­dosi di non ritrovare mai niente di tutto quello che sentono, quando vorrebbero trovarlo per rispondere ai molti che li in­terrogano. Gesù sorride e risponde: «Ma non mi pare. La gente è mol­to contenta anche di voi…» «Oh! sì! Per quello che facciamo! Farti largo, e dare delle gomitate per questo, portare i malati, raccogliere gli oboli, e dire: “Sì, il Maestro è quello!”. Bella roba, in verità!». «Non ti denigrare troppo, Simone». «Non mi denigro. Mi conosco ». «È la più difficile delle sapienze. Ma Io ti voglio levare que­sta grande paura. Quando Io ho parlato, e voi non avete potu­to tutto comprendere e ritenere, domandate senza timore di apparire noiosi o di sconfortarmi. Abbiamo sempre delle ore di intimità. In queste apritemi il cuore. Do tanto a tanti. E che non darei a voi che amo come più non potrebbe Iddio? Hai parlato di onda che va e nulla resta alla riva. Verrà un giorno in cui ti accorgerai che ogni onda ti ha deposto un seme, e che ogni seme ha fatto pianta. Ti troverai davanti fiori e piante per tutti i casi, ti stupirai di te stesso dicendo: “Ma che mi ha fatto il Signore?”, perché tu allora sarai redento dalla schia­vitù del peccato e le tue virtù attuali si saranno perfezionate a grande altezza». «Tu lo dici, Signore, ed io mi riposo in questa tua parola». «Ora andiamo da chi ci attende. Venite. Pace a te, donna. Sarò tuo ospite questa sera». Escono e Gesù si dirige al lago per non essere oppresso dal­la calca. Pietro è sollecito a staccare la barca di pochi metri dalla riva di modo che la voce di Gesù sia udita da tutti, ma che uno spazio sia fra Lui e gli ascoltatori. «Da Cafarnao a qua Io ho pensato quale parola dirvi. E ho trovato indicazione nei fatti del mattino. Voi avete visto tre uomini venire a Me. L’uno spontanea­mente, l’altro perché da Me sollecitato, il terzo per subito en­tusiasmo. E avete anche visto che, di questi, due soli Io ne ho presi. Perché? Ho forse visto nel terzo un traditore? No, in ve­rità. Ma un impreparato. All’apparenza pareva più imprepa­rato questo che ora è al mio fianco, diretto prima a seppellire suo padre. Invece il più impreparato era il terzo. Questo era tanto preparato, a sua stessa insaputa, che ha saputo compie­re un ben eroico sacrificio. L’eroismo nel seguire Iddio è sempre prova di forte prepa­razione spirituale. Questo spiega certi sorprendenti fatti che avvengono intorno a Me. I più preparati a ricevere il Cristo, quale che sia la loro casta e la loro cultura, vengono a Me con una prontezza e una fede assoluta. I meno preparati mi osser­vano come un uomo che esce dal consueto, oppure mi studia­no con diffidenza e curiosità, oppure ancora mi attaccano e mi denigrano accusandomi in vari modi. Le diverse maniere di agire sono in proporzione della impreparazione degli spiriti. Nel popolo eletto si dovrebbero trovare da per tutto spiriti pronti a ricevere questo Messia nella cui attesa si sono consu­mati d’ansia i Patriarchi e i Profeti, questo Messia venuto fi­nalmente, preceduto e accompagnato da tutti i segni profetiz­zati, questo Messia la cui figura spirituale si delinea sempre più chiara attraverso i miracoli visibili sulle membra e sugli elementi, e i miracoli invisibili sulle coscienze che si conver­tono e sui gentili che si volgono al Dio vero. Invece così non è. E la prontezza nel seguire il Messia è fortemente ostacolata proprio nei figli di questo popolo e, doloroso a dirsi, lo è tanto più quanto più si sale nelle classi più alte di esso. Non dico questo per scandalizzarvi. È per indurvi a pregare ed a riflet­tere. Perché avviene questo? Perché i gentili e i peccatori fanno più strada sulla via mia? Perché essi accolgono quanto Io di­co, e gli altri no? Perché i figli d’Israele sono ancorati, anzi, sono incrostati come ostriche perlifere al banco su cui sono nate. Perché sono saturati, ricolmati, obesi della loro sapienza, e non sanno fare largo alla mia col gettare il superfluo per fare po­sto al necessario. Gli altri non hanno questa schiavitù. Sono poveri pagani, o poveri peccatori, disancorati come nave alla deriva, sono dei poveri che non hanno tesori propri ma solo fardelli di errori o di peccati, dei quali si spogliano con gioia non appena riescono a comprendere cosa è la Buona Novella e sentono il suo miele corroborante ben diverso dal disgustoso miscuglio dei loro peccati. Udite, e forse capirete meglio come possono esservi diver­si frutti ad una stessa opera. Un seminatore andò a seminare. I suoi campi erano molti e di diversa razza. Ce ne erano alcuni che egli aveva ereditati dal padre, sui quali la sua sbadataggine aveva lasciato proli­ferare piante spinose. Altri erano un suo acquisto, li aveva com­perati così come erano da un negligente e tali li aveva lasciati. Altri ancora erano stati intersecati da strade, perché l’uo­mo era un grande comodista e non voleva fare molta strada per andare da un luogo all’altro. Infine ce ne erano alcuni, i più prossimi alla casa, sui quali egli aveva vegliato per avere un aspetto piacevole davanti alla dimora. Questi erano ben mondi di sassaia, di spine, di gramigne e così via. L’uomo dunque prese il suo sacchetto di grano da seme, il migliore dei grani, e iniziò la semina. Il seme cadde nel buon terreno soffice, arato, mondato, concimato dei campi prossimi alla casa. Cadde nei campi intersecati da vie e viette, che li spezzettavano tutti portando inoltre bruttura di polvere ari­da sulla terra fertile. Altro seme cadde sui campi dove l’inet­titudine dell’uomo aveva lasciato proliferare le piante spino­se. Ora l’aratro le aveva travolte, pareva non ci fossero più, ma c’erano, perché solo il fuoco, la radicale distruzione delle male piante, impedisce il loro rinascere. L’ultimo seme cadde sui campi comperati da poco e che egli aveva lasciati così co­me erano, senza dissodarli in profondità e mondarli da tutte le pietre sprofondate nel suolo a fare un pavimento duro sul quale non avevano presa le tenere radici. E poi, sparso tutto il suo seme, se ne tornò a casa e disse: “Oh! bene! Ora non c’è che da attendere la raccolta. E si beava perché, col passare dei mesi, vedeva spuntare fitto il grano nei campi davanti alla casa, e crescere… oh! Che soffice tappeto! e spighire… oh! che mare! e imbiondire e can­tare, battendo spiga a spiga, l’osanna al sole. L’uomo diceva: Come questi campi, tutti! Prepariamo la falce e i granai. Quanto pane! Quanto oro!”. E si beava… Segò il grano dei cam­pi più vicini e poi passò a quelli ereditati dal padre, ma lasciati inselvatichire. E restò di stucco. Grano e grano era nato, per­ché i campi erano buoni e la terra bonificata dal padre era gras­sa e fertile. Ma la sua stessa fertilità aveva agito anche sulle piante spinose, travolte ma non sterilite. Esse erano rinate ed avevano fatto un vero soffitto di ramaglie irte di rovi, attra­verso le quali il grano non aveva potuto emergere che con le rare spighe ed era morto soffocato quasi tutto. L’uomo disse: “Sono stato negligente in questo posto. Ma altrove non erano rovi, e andrà meglio”. E passò ai campi di recente acquisto. Il suo stupore crebbe in pena. Sottili, e or­mai disseccate, foglie di grano giacevano come fieno secco spar­se per ogni dove. Fieno secco. “Ma come? Ma come?” gemeva l’uomo. “Eppure qui non sono spine! Eppure il grano era lo stesso! Eppure era nato folto e bello. Lo si vede dalle foglie ben formate e numerose. Perché allora tutto è morto senza fare spi­ga?”. E con dolore si dette a scavare il suolo per vedere se trovava nidi di talpe o altri flagelli. Insetti e roditori no, non ce ne erano. Ma quanti, quanti sassi! Una petraia! I campi era­no letteralmente selciati da scaglie di pietra e la poca terra che li copriva era un inganno. Oh! se avesse approfondito l’a­ratro quando era tempo! Oh! se avesse scavato, prima di ac­ettare quei campi e comperarli per buoni! Oh! se almeno, dopo lo sbaglio fatto di acquistare quanto gli veniva proposto sen­za persuadersi della sua bontà, li avesse resi buoni a fatica di reni! Ma ormai era tardi ed era inutile il rammarichio. L’uomo si alzò in piedi avvilito e andò ai campi intersecati di stradette per sua comodità… E si strappò le vesti dal dolo­re. Qui non c’era nulla, assolutamente nulla… La terra scura del campo era coperta da un leggero strato di polvere bianca… L’uomo si accasciò al suolo gemendo: “Ma qui perché? Qui non spine e non sassi perché questi sono campi nostri. L’avo, il padre, io, li abbiamo sempre avuti e in lustri e lustri li ab­biamo fatti fertili. Io vi ho aperto le strade, avrò levato del ter­reno al campo, ma ciò non può averlo fatto sterile così…”. Pian­geva ancora quando ebbe risposta al suo dolore da un fitto scia­me d’uccelli che si accanivano dai sentieri sul campo e da que­sto ai sentieri per cercare, cercare, cercare semi, semi, semi… Il campo, divenuto una rete di stradette sui bordi delle quali era caduto del grano, aveva attirato molti uccelli, e questi pri­ma avevano mangiato il grano caduto sulla via e poi quello del campo, fino all’ultimo chicco. Così il seme, uguale per tutti i campi, aveva dato dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta, dove il nulla. Chi ha orecchie da intendere intenda. Il seme è la Parola: uguale per tutti. I luoghi dove cade il seme: i vostri cuori. Ognuno appli­chi e comprenda. La pace sia con voi ». E poi, rivolgendosi a Pietro, dice: «Risali finché puoi e poi ammarra dall’altro lato ». E mentre le due barche fanno poca via sul fiume per poi fermarsi presso la sponda, Gesù si siede chiedendo al discepo­lo novello: « Chi resta, ora, a casa tua? ». «Mia madre col fratello maggiore, sposato da cinque anni. Le sorelle sono sparse per la regione. Mio padre era molto buo­no. E mia madre lo piange desolatamente». Il giovane si ar­resta bruscamente, perché sente che un singhiozzo gli monta dal cuore. Gesù lo afferra per una mano e dice: «Ho conosciuto Io pu­re questo dolore ed ho visto piangere mia Madre. Ti capisco perciò…» Lo sfregare della barca sul greto fa sì che il discorso si in­terrompa per permettere di scendere a terra. Qui non sono più i colli bassi di Betsaida che quasi tuffano il muso nel lago, ma una pianura ricca di messi si stende da questa sponda, oppo­sta a Betsaida, verso il nord. «Andiamo a Meron? » chiede Pietro. «No. Prendiamo questo sentiero fra i campi ». I campi, belli e ben tenuti, mostrano le spighe ancora tene­re ma già formate; tutte alla stessa altezza, e col lieve ondeg­giare che imprime loro il vento fresco che’ viene dal nord, sem­brano un altro piccolo lago al quale fanno da vele gli alberi che si drizzano qua e là, pieni di zirli d’uccelli. «Questi campi non sono come quelli della parabola » os­serva il cugino Giacomo. «No, davvero! Gli uccelli non li hanno devastati non ci so­no spine e non sassi. Un bel grano! Fra un mese sarà già bion­do… e fra due sarà pronto alla falce e al granaio» dice Giuda Iscariota. «Maestro… io ti ricordo ciò che hai detto in casa mia. Tu hai parlato tanto bene. Ma io comincio ad avere nella testa delle nuvole scompigliate come quelle lassù… » dice Pietro. «Questa sera te lo spiegherò. Ora siamo in vista di Coro­zim». E Gesù guarda fisso il neo discepolo, dicendo: «A chi da è dato. E l’avere non leva il merito del donativo. Conduci­mi al sepolcro vostro e alla casa di tua madre». Il giovane si inginocchia baciando fra le lacrime la mano di Gesù. «Alzati. Andiamo. Il mio spirito ha sentito il tuo pianto. Voglio fortificarti nell eroismo con il mio amore». «Mi aveva raccontato Isacco l’Adulto quanto Tu eri buo­no. Isacco, sai? Quello al quale Tu hai risanato la figlia. E’ sta­to il mio apostolo. Ma vedo che la tua bontà è ancora più gran­de di quanto mi era stato detto». «Saluteremo anche l’Adulto per ringraziarlo di avermi dato un discepolo». Corozim è raggiunta ed è proprio la casa di Isacco la prima che si trova. Il vecchio, che sta tornando in casa, quando vede il gruppo di Gesù coi suoi, e fra essi il giovane di Corozim, al­za le braccia, col suo bastoncello in mano, e resta senza fiato, a bocca aperta. Gesù sorride e il suo sorriso rende voce al vec­chione. «Dio ti benedica, Maestro! Ma come a me quest’onore?» «Per dirti  grazie». «Ma di che, mio Dio? Io devo dirtela questa parola. Entra, entra. Oh! che dolore che mia figlia sia lontana per assistere la suocera! Perché si è sposata, lo sai? Tutte le benedizioni dopo che ti ho incontrato! Lei guarita, e subito dopo quel ricco parente tornato da lontano, vedovo, con quei piccoli bisognosi di una madre… Oh! ma te le ho già dette queste cose! La mia testa è vecchia! Perdona ». «La tua testa è saggia e dimentica anche di gloriarsi del bene che fa per il suo Maestro. Dimenticarsi del bene fatto è saggezza. Dimostra umiltà e fiducia in Dio». «Ma io… non saprei… E questo discepolo non l’ho per te? ». «Oh!… Ma non ho fatto nulla, sai? Solo ho detto la verità… e sono contento che Elia sia con Te». Si volge a questo Elia e dice: «Tua madre, dopo il primo momento di stupore, ebbe rasciugato il pianto nel saperti del Maestro. Tuo padre ebbe un degno cordoglio, però. Da poco è nel sepolcro». «E mio fratello? ». «Tace… Sai… gli è stato un po’ duro vederti assente… per il paese… Lui pensa ancora così… Il giovane si volge a Gesù: «Tu lo hai detto. Ma io non vor­rei che egli fosse morto… Fa’ che divenga vivo come me, e al tuo servizio ». Gli altri non capiscono e guardano interrogativamente, ma Gesù risponde: «Non disperare e persevera». Poi benedice Isac­co e se ne va, nonostante ogni pressione. Sostano prima presso il sepolcro chiuso e pregano. Poi, at­traverso un vigneto ancora semispoglio, vanno alla casa di Elia. L’incontro fra fratelli è piuttosto sostenuto. Il maggiore si sente offeso e lo vuole far rilevare. Il minore si sente umana­mente colpevole e non reagisce. Ma l’arrivo della madre, che senza parole si prostra e bacia l’orlo della veste di Gesù, ras­serena l’ambiente e gli animi. Tanto che si vuole fare onore al Maestro. Il quale però non accetta nulla, ma solo dice: «Siano giusti i vostri cuori, l’uno verso l’altro, come giusto era colui che pian­gete. Non date impronta umana al sovrumano: la morte e l’e­lezione ad una missione. L’anima del giusto non si è agitata nel vedere che il figlio mancava alla sepoltura del suo cadave­re. Ma si è anzi messa quieta, nella sicurezza sul futuro del suo Elia. Il pensiero del mondo non turbi la grazia dell’elezio­ne. Se il mondo ha potuto stupire di non vedere costui presso il feretro paterno, gli angeli hanno esultato nel vederlo a fianco del Messia. Siate giusti. E tu, madre, sii consolata da questo. Hai educato con saggezza, e tuo figlio è stato chiamato dalla Sapienza. Vi benedico tutti. La pace sia con voi ora e sempre». Tornano sulla via che riprendono per andare al fiume e da qui a Betsaida. L’uomo, Elia, neppure si è attardato un istan­te sulla soglia paterna. Dopo il bacio di addio alla madre ha seguito il Maestro con la semplicità con cui un bambino segue il suo vero padre.

 

  1. Disputa nella cucina di Pietro a Betsaida. Spiegazione della parabola del seminatore. La notizia della seconda cattura del Battista.

7 giugno 1945. Eccoci di nuovo nella cucina di Pietro. La cena deve essere stata abbondante, perché i piatti coi resti di pesce e di car­ne, di formaggi, di frutta secche o per lo meno avvizzite, di focacce di miele, si ammucchiano su una specie di credenza che ricorda un poco le nostre madie toscane, e anfore con calici so­no ancora sparsi sulla tavola. La moglie di Pietro deve aver fatto miracoli per fare con­tento il marito e deve avere lavorato tutta la giornata. Ora, stanca ma contenta, sta nel suo angolino e ascolta ciò che dice il suo uomo e ciò che dicono gli altri. Lo guarda, il suo Simo­ne, che per lei deve essere un grande uomo anche se un poco esigente, e quando lo sente parlare con parole nuove su quel­la bocca che prima parlava solo di barche, di reti, di pesci e di denaro, ha persino uno sbattimento di palpebre come fosse abbagliata da troppa luce. Pietro, sia per la gioia di avere alla sua tavola Gesù, sia per la gioia dell’abbondante pasto consu­mato, è proprio in vena questa sera, e si rivela in lui il futuro Pietro che predica alle folle. Non so quale osservazione di un compagno abbia originato la risposta scultorea di Pietro che dice: «Avverrà loro come ai fondatori della torre di Babele. La loro stessa superbia pro­vocherà il crollo delle loro teorie e rimarranno schiacciati ». Al fratello obbietta Andrea: «Ma Dio è Misericordia. Im­pedirà il crollo per dare loro tempo di ravvedersi ». «Non te lo pensare. A coronamento della loro superbia met­teranno calunnia e persecuzione. Oh! io già me lo sento. Per­secuzioni su noi per disperderci come testimoni odiosi. E, po­sto che attaccheranno con insidia. Avremo noi forza di resistenza?» chiede Tommaso. «Ecco… per me non l’avrei. Ma fido in Lui» e Pietro ac­cenna il Maestro, che ascolta e tace stando un poco a capo chino come per tenere nascosto il suo viso espressivo. «Io penso che Dio non ci darà prove superiori alle nostre forze » dice Matteo. «O per lo meno aumenterà le forze in proporzione delle prove » termina Giacomo d’Alfeo. «Egli lo fa già. Ero ricco e potente. Se Dio non mi aves­se voluto conservare per un suo fine, io sarei perito nella di­sperazione quando fui perseguitato e lebbroso. Avrei infierito su me stesso… Invece nel mio crollo completo scese una ric­chezza nuova che non avevo mai posseduta prima, la ricchez­za di una persuasione: “Dio c’è”. Prima.. – Dio.. – Sì, ero cre­dente, ero un fedele israelita. Ma era una fede di formalismi. E mi pareva che il premio della stessa fosse sempre inferiore alle mie virtù. Mi permettevo di discutere con Dio perché mi sentivo ancora qualcosa sulla terra. Simon Pietro ha ragione. Io pure costruivo una torre di Babele con le autolodi e le sod­disfazioni del mio io. Quando tutto mi crollò addosso, e fui un verme schiacciato dal peso di tutto questo inutile umano, al­lora non discussi più con Dio, ma con me stesso, col mio pazzo me stesso, e finii di demolirlo. E più lo facevo, facendo strada a ciò che io penso sia il Dio immanente sul nostro essere di terrestri, ecco che raggiungevo una forza, una ricchezza nuo­va. La certezza che non ero solo e che Dio vegliava sull’uomo vinto dall’uomo e dal male ». Secondo te, che pensi che sia Dio, questo che tu hai detto il Dio immanente sul nostro essere di terrestri”? Che vuoi dire? Non ti comprendo e mi pare un’eresia. Dio è quello che conosciamo attraverso la Legge ed i Profeti. Non ve ne è al­tro» dice un poco severo Giuda Iscariota. «Se ci fosse Giovanni te lo direbbe meglio di me. Ma io te lo dico come so. Dio è quello che’ conosciamo attraverso la Legge e i Profeti. E vero. Ma in che lo conosciamo? Come?». Giuda d’Alfeo scatta: «Poco e male. Ancora lo conosceva­no essi, i Profeti che ce lo hanno descritto. Noi ne abbiamo l’i­dea confusa che trapela dall’ingombro di tutta una catasta ac­cumulata dalle sètte… «Sètte? Ma come parli? Noi non abbiamo sètte. Noi siamo i figli della Legge. Tutti » dice l’Iscariota sdegnato, aggressivo. «I figli delle leggi. Non della Legge. E’ una lieve differen­za. Dal singolare al plurale. Ma nella sua realtà ciò è: che sia­mo figli di ciò che abbiamo creato, e non più di ciò che Dio ci ha dato » ribatte il Taddeo. «Le leggi sono nate dalla Legge » dice l’Iscariota. «Anche le malattie nascono dal nostro corpo, e non mi vor­rai dire che sono cose buone » replica il Taddeo. «Ma lasciatemi sapere cosa è il Dio immanente di Simone Zelote». L’Iscariota, che non può ribattere alla osservazione di Giuda d’Alfeo, cerca di ricondurre la questione al punto di partenza. Simone Zelote dice: «Ai nostri sensi occorre sempre un termine per afferrare un idea. Ognuno di noi, parlo di noi cre­denti, crede per forza di fede all’Altissimo, Signore e Creato­re, eterno Iddio che sta nel Cielo. Ma anche ogni essere ha bi­sogno di più di questa nuda fede, vergine, incorporea, atta e sufficiente agli angeli che vedono e amano Dio spiritualmen­te, condividendo con Lui la natura spirituale e avendo capa­cità di vedere Dio. Noi abbiamo bisogno di crearci una “figu­ra” di Dio, la quale figura è fatta delle qualità essenziali che doniamo a Dio per dare un nome alla sua perfezione assoluta, infinita. Più l’anima si concentra e più riesce a raggiungere l’esattezza nella cognizione di Dio. Ecco ciò che io dico: il Dio immanente. Io non sono un filosofo. Forse avrò applicato ma­le la parola. Ma insomma per me il Dio immanente è il senti­re, il percepire Dio sul nostro spirito, e sentirlo e percepirlo non più come idea astratta ma come reale presenza datrice di una fortezza e di una pace nuova». «Va bene. Ma insomma come lo sentivi? Quale differenza c’è fra il sentire per fede e sentire per immanenza? » chiede un poco ironico l’Iscariota. «Dio è sicurezza, ragazzo. Quando tu lo senti come dice Si­mone, con quella parola che io non capisco alla lettera ma del­la quale capisco lo spirito – e credi che il nostro male è di ca­pire solo la lettera e non lo spirito delle parole di Dio – vuol dire che riesci ad afferrare non solo il concetto della maestà terribile, ma della paternità dolcissima di Dio. Vuol dire che senti che, quando tutto il mondo ti giudicasse e condannasse con ingiustizia, Uno solo, Lui, l’Eterno che ti è padre, non ti giudica ma ti assolve e consola. Vuol dire che senti che quan­do tutto il mondo ti odiasse tu sentiresti su te un amore più grande di tutto il mondo. Vuol dire che segregato in una car­cere o in un deserto tu sentiresti sempre che Uno ti parla e dice: “Sii santo per essere come il Padre tuo”. Vuol dire che per l’amore vero a questo Padre Dio, che finalmente si arriva a sentire tale, si accetta, si opera, si prende o si lascia senza misure umane, pensando solo a rendere amore per amore, a copiare il più possibile Dio nelle proprie azioni» dice Pietro. «Sei superbo! Copiare Dio! Non ti è concesso » giudica l’I­scariota. «Non è superbia. L’amore porta all’ubbidienza. Copiare Dio mi sembra ancora una forma di ubbidienza, perché Dio dice di averci fatto a sua immagine e somiglianza » replica Pietro. «Ci ha fatto. Noi non dobbiamo andare più su».  «Ma sei un disgraziato se pensi così, caro ragazzo! Tu di­mentichi che noi siamo decaduti e che Dio ci vuole riportare a ciò che eravamo ». Gesù prende la parola: «Più ancora, Pietro, Giuda e voi tutti. Più ancora. La perfezione di Adamo era ancora suscetti­bile di aumento mediante l’amore che lo avrebbe portato ad una immagine sempre più esatta del suo Creatore. Adamo sen­za la macchia del peccato sarebbe stato un tersissimo specchio di Dio. Per questo Io dico: ” Siate perfetti come è perfetto il Padre che è nei Cieli “. Come il Padre. Perciò come Dio. Pie­tro ha detto molto bene. E molto bene Simone. Vi prego ricor­dare le loro parole e applicarle alle vostre anime ». La moglie di Pietro per poco si sviene nella gioia di sentire lodare così suo marito. Piange dentro il suo velo, quieta e beata. Pietro sembra gli venga un colpo apoplettico tanto diventa rosso. Resta muto per qualche momento e poi dice: «Ebbene, allora dammi il premio. La parabola di stamane…» Anche gli altri si uniscono a Pietro dicendo: « Si. Lo hai promesso. Le parabole servono bene a fare comprendere il pa­ragone. Ma noi comprendiamo che esse hanno uno spirito superiore al paragone. Perché parli ad essi in parabole? ». «Perché a loro non è concesso di intendere più di ciò che spiego. A voi va dato molto di più perché voi, miei apostoli, dovete conoscere il mistero; e vi è perciò dato di intendere i misteri del Regno dei Cieli. Per questo vi dico: “Domandate se non comprendete lo spirito della parabola “. Voi date tutto, e tutto vi va dato perché a vostra volta tutto voi possiate dare. Voi tutto date a Dio: affetti, tempo, interessi, libertà, vita. E tutto Dio vi dà per compensarvi e per farvi capaci di tutto da­re in nome di Dio a chi è dopo di voi. Così a chi ha dato sarà dato e con abbondanza. Ma a chi non ha dato che parzialmen­te o non ha dato affatto, sarà tolto anche quello che ha. Parlo loro in parabole perché vedendo vedano solo quello che la loro volontà di aderire a Dio illumina, perché udendo, sempre per la stessa loro volontà di adesione, odano e compren­dano. Voi vedete! Molti odono la mia parola, pochi aderiscono a Dio. I loro spiriti sono monchi della buona volontà. In loro si adempie la profezia di Isaia: “Udirete con le orecchie e non intenderete, guarderete con gli occhi e non vedrete “. Perché questo popolo ha un cuore insensibile; sono duri gli orecchi e hanno chiusi gli occhi per non vedere e per non sentire, per non intendere col cuore e non convertirsi acciò Io li guarisca. Ma voi beati per i vostri occhi che vedono e i vostri orecchi che odono, per la vostra buona volontà! In verità vi dico che molti profeti e molti giusti desideraro­no vedere ciò che voi vedete e non lo videro, e udire ciò che voi udite e non l’udirono. Si consumarono nel desiderio di com­prendere il mistero delle parole, ma spenta la luce della pro­fezia ecco le parole rimanere come carboni spenti, anche per il santo che le aveva avute. Solo Dio disvela Se stesso. Quando la sua luce si ritrae, ter­minato il suo scopo di illuminare il mistero, l’incapacità di in­tendere fascia, come le bende di una mummia, la regale veri­tà della parola ricevuta. Per questo Io ti ho detto stamane: “Verrà un giorno che ritroverai tutto quanto ti ho dato”. Ora non puoi ritenere. Ma dopo la luce verrà su te, e non per un attimo ma per un inseparabile connubio dello Spirito eterno col tuo, onde infallibile sarà il tuo ammaestramento in ciò che è cosa del Regno di Dio. E così come in te, nei tuoi successori, se vivranno di Dio come di unico pane. Ora sentite lo spirito della parabola. Abbiamo quattro generi di campi: quelli fertili, quelli spi­nosi, quelli sassosi, quelli pieni di sentieri. Abbiamo anche quattro generi di spiriti. Abbiamo gli spiriti onesti, gli spiriti di buona volontà, pre­parati dalla stessa e dalla buona opera di un apostolo, di un “vero” apostolo; perché ci sono apostoli che hanno il nome ma non lo spirito di apostoli, i quali sono più micidiali sulle volontà in formazione degli stessi uccelli, spini e sassi. Scon­volgono in modo tale, con le loro intransigenze, con le loro fret­te, con i loro rimproveri, con le loro minacce, che allontanano per sempre da Dio. Altri ve ne sono che, all’opposto, con un innaffiamento continuo di benignità fuori posto, fanno marcire il seme in un terreno troppo molle. Devirilizzano con la lo­ro devirilizzazione gli animi che curano. Ma stiamo ai veri apo­stoli, ossia agli specchi tersi di Dio. Essi sono paterni, miseri­cordiosi, pazienti, e nello stesso tempo forti come è il loro Si­gnore. Or bene, gli spiriti preparati da questi e dalla loro pro­pria volontà sono paragonabili ai campi fertili, mondi di pie­tre e di rovi, netti da gramigne e da logli, in cui prospera la parola di Dio, e ogni parola – un seme – fa cespo e spighe, dando dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta per cento. In questi che mi seguono ce ne sono? Certo. E santi saranno. Fra essi ce ne sono di tutte le caste e di tutti i paesi, anche gentili ci sono, e che pure daranno il cento per cento per la loro buona volontà, unicamente per essa, oppure per la loro e quella di un apostolo o discepolo che me li prepara. I campi spinosi sono quelli in cui l’incuria ha lasciato pe­netrare spinosi grovigli di interessi personali che soffocano il buon seme. Occorre sorvegliarsi sempre, sempre, sempre. Non dire mai: “Oh! ormai io sono formato, seminato, posso stare tranquillo che darò seme di vita eterna”. Occorre sorvegliar­si: la lotta fra il Bene e Male è continua. Avete mai osservato una tribù di formiche che si insedia in una casa? Eccole sul focolare. La donna non lascia più cibarie lì e le mette sul tavo­lo; e loro fiutano l’aria e danno l’assalto al tavolo. La donna le mette nella credenza e loro passano dalla serratura nella credenza. La donna appende al soffitto le sue provviste e loro fanno un lungo cammino lungo le pareti e i travicelli, si cala­no per la fune e mangiano. La donna le brucia, le scotta, le avvelena. E poi sta tranquilla credendo di averle distrutte. Oh! se non vigila, che sorpresa! Ecco le nuove nate che escono, e siamo da capo. Così finché si vive; bisogua sorvegliarsi per estir­pare le male piante non appena spuntano. In caso contrario esse fanno un soffitto di rovi e soffocano il grano. Le cure mon­dane, l’inganno delle ricchezze creano il groviglio, affogano la pianta del seme di Dio e non le fanno fare spiga. Ecco ora i campi pieni di sassi. Quanti in Israele! Sono quelli che appartengono ai “figli delle leggi “come ha detto mio fra­tello Giuda molto giustamente. In loro non è la pietra unica della Testimonianza, non vi è la pietra della Legge. Vi è la sassaia delle piccole, povere, umane leggi create dagli uomi­ni. Tante e tante che col loro peso hanno fatto a scaglie anche la pietra della Legge. Una rovina che impedisce ogni attecchi­mento di seme. Non è più nutrita la radice. Non c’è terra, non c’è succo. L’acqua fa marcire perché stagna sul pavimento di selci, il sole si arroventa su quelle selci e brucia le pianticine. Sono gli spiriti dei sostitutori delle complicate dottrine uma­ne alla semplice dottrina di Dio. La ricevono anche con gioia, la mia parola. Al momento ne sono scossi e sedotti. Ma poi… Occorrerebbe l’eroismo di sgobbare a mondare il campo, l’ani­mo e la mente da tutta la sassaia dei retori. Allora il seme fa­rebbe radica e sarebbe un forte cespo. Così… è nulla. Basta un timore di rappresaglie umane. Basta una riflessione: “Ma e poi? Che me ne verrà dagli uomini potenti? ” e il povero se­me non nutrito langue. Basta che tutta la sassaia si agiti col suono vano dei cento e cento precetti che si sono sostituiti al Precetto, che ecco che l’uomo perisce col seme ricevuto… – Israele ne è pieno. Questo spiega come il venire a Dio vada in ragione inversa della potenza umana. Ultimi i campi pieni di strade, polverosi, nudi. Quelli dei mondani, degli egoisti. Il loro comodo è la loro legge, il godi­mento il loro fine. Non fare fatica, sonnecchiare, ridere, man­giare… – Lo spirito del mondo è re in questi. La polvere della mondanità ricopre il terreno che diviene terriccio. Gli uccelli, ossia le dissipazioni, si precipitano sui mille sentieri aperti per rendere più facile la vita. Lo spirito del mondo, ossia del Mali­gilo, becca e distrugge ogni seme che cade su questo terreno aperto a tutte le sensualità e le leggerezze. Avete inteso? Avete altro da chiedere? No? Allora possiamo andare a prendere riposo per partire domani per Cafarnao. Devo andare ancora in un posto prima di incominciare il viag­gio verso Gerusalemme per la Pasqua». Passeremo ancora per Arimatea? » chiede l’Iscariota. «Non è sicuro. A seconda dei…» Alla porta viene bussato violentemente. «Ma chi può essere a quest’ora?» dice Pietro alzandosi per aprire. Si presenta Giovanni. Stravolto, impolverato, con chiari se­gni di pianto sul viso. «Tu qui?» gridano tutti. «Ma che è accaduto? ». Gesù, che si è alzato, dice solo: «La Madre dove è?». E Giovanni, venendo avanti e andando a inginocchiarsi ai piedi del suo Maestro, tendendo le braccia come per avere soc­corso, dice: «La Madre sta bene, ma è in pianto come me, co­me tanti, e ti prega di non venire seguendo il Giordano dalla parte nostra. Mi ha mandato indietro per questo, perché… per­ché Giovanni tuo cugino è stato preso prigione… ». E Giovan­ni piange mentre molto subbuglio si solleva fra i presenti. Gesù impallidisce profondamente ma non si agita. Solamen­te dice: «Alzati e racconta». «Andavo in giù con la Madre e le donne. Anche Isacco e Timoneo erano con noi. Tre donne e tre uomini. Ho ubbidito al tuo ordine di condurre Maria da Giovanni… ah! Tu lo sape­vi che era l’ultimo addio!… Che doveva essere l’ultimo addio… Il temporale di giorni sono ci ha fatto sostare di poche ore. Ma sono bastate perché Giovanni non potesse più vedere Maria… Noi siamo arrivati all’ora di sesta e lui era stato catturato al gallicinio… «Ma dove? Ma come? Da chi? Nel suo antro? » tutti chie­dono, tutti vogliono sapere. «E’ stato tradito!… Si è usato il tuo Nome per tradirlo!». «Che orrore! Ma chi è stato? » urlano tutti. E Giovanni rabbrividendo, dicendolo piano questo orrore che neppur l’aria dovrebbe udire, confessa: «Da un suo disce­polo…». Il subbuglio è al colmo. Chi maledice, chi piange, chi sba­lordito resta in posa di statua. Giovanni si attacca al collo di Gesù e grida: «Io ho pau­ra per Te! per Te! per Te! I santi hanno i traditori che per l’oro si vendono, per l’oro e la paura dei grandi, per sete di premio, per… per ubbidienza a Satana. Per mille, mille cose! Oh! Ge­sù, Gesù, Gesù! Che dolore! Il mio primo maestro! Il mio Gio­vanni che mi ha dato Te!». «Buono! Buono! Non mi accadrà nulla per ora». «Ma poi? Ma poi? Mi guardo… guardo questi… ho paura di tutti, anche di me. Ci sarà fra noi il tuo traditore…  «Ma sei pazzo? E credi che non lo faremo a pezzi?» urla Pietro. E l’Iscariota: «Oh! pazzo per davvero! Io non lo sarò mai. Ma, se mi sentissi indebolito al punto di poterlo diventare, mi ucciderei. Meglio così che uccisore di Dio». Gesù si libera dalla stretta di Giovanni e scuote rudemen­te l’Iscariota dicendo: «Non bestemmiare! Nulla ti potrà in­debolire, se non vuoi. E se ciò fosse, fa’ di piangere, e non ave­re un delitto oltre al deicidio. Debole diviene chi da sé si sve­na di Dio». Poi torna da Giovanni, che piange col capo sul tavolo, e dice: «Parla, con ordine. Io pure soffro. Era il mio sangue ed il mio Precursore ». «Non ho visto che i discepoli, parte di essi, costernati e fu­renti contro il traditore. Gli altri hanno accompagnato Giovan­ni verso la sua prigione per essergli vicino nella morte ». «Ma non è ancora morto… l’altra volta poté fuggire » cer­ca di confortare lo Zelote che vuole molto bene a Giovanni. «Non è ancora morto. Ma morirà » risponde Giovanni. Si. Morirà. Egli lo sa come Io lo so. Nulla e nessuno lo salverà questa volta. Quando? Non so. So che vivo non uscirà dalle mani di Erode ». «Sì, di Erode. Senti. Egli è andato verso quella gola da cui noi pure passammo al ritorno in Galilea, fra l’Ebal e il Gari­zim, perché gli fu detto dal traditore: “Il Messia è morente per un assalto di nemici. Ti vuole vedere per affidarti un se­greto”. E lui è andato col traditore e con qualche altro. Nel­l’ombra del vallone erano gli armati di Erode e lo hanno pre­so. Gli altri sono fuggiti portando la notizia ai discepoli rima­sti presso Ennon. Erano appena venuti quando giunsi io con la Madre. E quello che è orribile è che era uno delle nostre città… e che sono stati i farisei di Cafarnao alla testa del com­plotto per prenderlo. Erano stati da lui dicendo che Tu eri sta­to loro ospite e che da lì partivi per la Giudea… Non sarebbe uscito dal suo rifugio altro che per Te… Un silenzio di tomba succede alla narrazione di Giovan­ni. Gesù sembra svenato, cogli occhi di un azzurro cupissimo e come appannati. Sta a capo chino, la mano ancora sulla spalla di Giovanni, e la mano è scossa da un lieve tremito. Nessuno osa parlare. Gesù rompe il silenzio: «Andremo in Giudea da altra via. Ma domani devo andare a Cafarnao. Al più presto. Riposate. Io salgo fra gli ulivi. Ho bisogno di essere solo». Ed esce senza aggiungere altro. «Va certo a piangere » mormora Giacomo d’Alfeo. «Seguiamolo, fratello » dice Giuda Taddeo. «No. Lasciatelo piangere. Solo usciamo piano, in ascolto. Temo insidia da per tutto » risponde lo Zelote. «Si. Andiamo. Noi pescatori sulla riva. Se qualcuno viene dal lago lo vedremo. Voi per gli ulivi. E’ certo al suo solito po­sto, presso il noce. All’alba prepareremo le barche per andare presto. Quei serpenti! Eh! l’ho detto io! Di’, ragazzo? Ma… la Madre è proprio in sicuro?». «Oh, sì! Anche i pastori discepoli di Giovanni sono andati con Lei. Andrea… non lo vedremo più il nostro Giovanni! ». «Taci! Taci! Mi sembra il canto del cuculo… Uno precede l’altro e… e…». «Per l’Arca santa! Tacete! Se parlate ancora di sventura al Maestro, comincio da voi a farvi assaggiare il sapore del mio remo sulle reni! » urla Pietro inferocito. «Voi » dice poi a quelli che restano per gli ulivi «prendete dei bastoni, dei grossi ra­mi, là nella legnaia ce ne sono, e spargetevi armati. Il primo che si accosta a Gesù per nuocergli sia morto». «Discepoli! Discepoli! Bisogua essere cauti coi nuovi! » escla­ma Filippo. Il nuovo discepolo si sente ferito e chiede: «Dubiti di me? Egli mi ha scelto e voluto ». «Non di te. Ma di quelli che sono scribi e farisei e dei loro adoratori. Da lì verrà la rovina, credetelo ». Escono e si spargono chi per le barche, chi fra gli ulivi del­le colline, e tutto ha termine.