Per gentile concessione della Libreria Editrice Vaticana, anticipiamo un brano di “Gesù di Nazaret. Dall’ingresso a Gerusalemme fino alla risurrezione”, di Benedetto XVI, in uscita il 10 marzo. È tratto dal capitolo “Gesù davanti a Pilato” (pp. 213-219)
02.03.2011
A questo punto dobbiamo passare dalle considerazioni sulla persona di Pilato al processo stesso. In Giovanni 18,34s è detto chiaramente che presso Pilato, in base alle informazioni in suo possesso, non c’era nulla contro Gesù. All’autorità romana non era giunta alcuna notizia su qualcosa che in qualche modo avrebbe potuto minacciare la pace legale. L’accusa proveniva dagli stessi connazionali di Gesù, dall’autorità del tempio. Doveva stupire Pilato che i connazionali di Gesù si presentassero davanti a lui come difensori di Roma, dal momento che le sue personali conoscenze non gli avevano dato l’impressione che un intervento fosse necessario.
Ma nell’interrogatorio, ecco all’improvviso un momento che suscita eccitazione: la dichiarazione di Gesù. Alla domanda di Pilato: «Dunque tu sei re?», Egli risponde: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (Gv 18,37). Già prima Gesù aveva detto: «La mia regalità [il mio regno] non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (18,36).
Questa «confessione» di Gesù mette Pilato davanti ad una strana situazione: l’accusato rivendica regalità e regno (basileía). Ma sottolinea la totale diversità di questa regalità, e ciò con l’annotazione concreta che per il giudice romano deve essere decisiva: nessuno combatte per questa regalità. Se il potere, e precisamente il potere militare, è caratteristico per la regalità e il regno – niente di ciò si trova in Gesù. Per questo non esiste neanche una minaccia per gli ordinamenti romani. Questo regno è non violento. Non dispone di alcuna legione.
Con queste parole, Gesù ha creato un concetto
assolutamente nuovo di regalità e di regno mettendo Pilato, il
rappresentante del classico potere terreno, di fronte ad esso. Che cosa
deve pensare Pilato, che cosa dobbiamo pensare noi di tale concetto di
regno e di regalità? È una cosa irreale, una fantasticheria della quale
ci si può disinteressare? O forse in qualche modo ci riguarda?
Accanto
alla chiara delimitazione del concetto di regno (nessuno combatte,
impotenza terrena), Gesù ha introdotto un concetto positivo, per rendere
accessibile l’essenza e il carattere particolare del potere di questa
regalità: la verità. Pilato, nell’ulteriore sviluppo
dell’interrogatorio, ha messo in gioco un altro termine che proviene dal
suo mondo e viene normalmente collegato con il termine «regno»: il
potere – l’autorità (exousía). Il dominio richiede un potere,
addirittura lo definisce. Gesù invece qualifica come essenza della sua
regalità la testimonianza alla verità. La verità è forse una categoria
politica? Oppure il «regno» di Gesù non ha niente a che fare con la
politica? A quale ordine allora esso appartiene? Se Gesù basa il suo
concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria
fondamentale, molto comprensibilmente il pragmatico Pilato chiede: «Che
cos’è la verità?» (18,38).
È la domanda che pone anche la moderna
dottrina dello Stato: può la politica assumere la verità come categoria
per la sua struttura? O deve lasciare la verità, come dimensione
inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a
stabilire la pace e la giustizia con gli strumenti disponibili
nell’ambito del potere? Vista l’impossibilità di un consenso sulla
verità, la politica puntando su di essa non si rende forse strumento di
certe tradizioni che, in realtà, non sono che forme di conservazione del
potere?
Ma, dall’altra parte – che cosa succede se la verità non
conta nulla? Quale giustizia allora sarà possibile? Non devono forse
esserci criteri comuni che garantiscano veramente la giustizia per tutti
– criteri sottratti all’arbitrarietà delle opinioni mutevoli ed alle
concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono
vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità
poté portare la liberazione?
Che cos’è la verità? La domanda del
pragmatico, posta superficialmente con un certo scetticismo, è una
domanda molto seria, nella quale effettivamente è in gioco il destino
dell’umanità. Che cosa è, dunque, la verità? Possiamo riconoscerla? Può
essa entrare, come criterio, nel nostro pensare e volere, nella vita sia
del singolo che in quella della comunità?
La definizione classica formulata dalla filosofia scolastica qualifica la verità come «adaequatio intellectus et rei – corrispondenza tra intelletto e realtà» (Tommaso d’Aquino, S. theol.
I q 21 a 2 c). Se la ragione di una persona rispecchia una cosa così
come essa è in se stessa, allora la persona ha trovato la verità. Ma
solo un piccolo settore di ciò che esiste realmente – non la verità
nella sua grandezza ed interezza.
Con un’altra affermazione di san
Tommaso ci avviciniamo già di più alle intenzioni di Gesù: «La verità è
nell’intelletto di Dio in senso vero e proprio e in primo luogo (proprie et primo); nell’intelletto umano, invece, essa è in senso vero e proprio, e derivato (proprie quidem et secundario)» (De verit. q 1 a 4 c). E così s’arriva infine alla formula lapidaria: Dio è «ipsa summa et prima veritas – la stessa somma e prima verità» (S. theol. I q 16 a 5 c).
Con
questa formula siamo vicini a ciò che Gesù intende dire quando parla
della verità, per dare testimonianza alla quale è venuto nel mondo.
Verità ed opinione errata, verità e menzogna nel mondo sono
continuamente mescolate in modo quasi inestricabile. La verità
in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è «vero» nella
misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione
eterna da cui è scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si
avvicina a Dio. L’uomo diventa vero, diventa se stesso se diventa
conforme a Dio. Allora egli raggiunge la sua vera natura. Dio è la
realtà che dona l’essere e il senso.
«Dare testimonianza alla verità»
significa mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli
interessi del mondo e alle sue potenze. Dio è la misura dell’essere. In
questo senso, la verità è il vero «re» che a tutte le cose dà la loro
luce e la loro grandezza. Possiamo anche dire che dare testimonianza
alla verità significa: partendo da Dio, dalla Ragione creatrice, rendere
la creazione decifrabile e la sua verità accessibile in modo tale che
essa possa costituire la misura e il criterio orientativo nel mondo
dell’uomo – che ai grandi e ai potenti si faccia incontro il potere
della verità, il diritto comune, il diritto della verità.
Diciamolo
pure: la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella
non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della
verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del
pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il
dio di questo mondo.
A questo punto, come uomini moderni, si è
tentati di dire: «Grazie alla scienza, per noi la creazione è diventata
decifrabile». Di fatto, dice ad esempio Francis S. Collins, che ha
diretto lo Human Genome Project, con lieto stupore: «Il linguaggio di Dio era stato decifrato» (The Language of God,
p. 99). Sì davvero, nella grandiosa matematica della creazione, che
oggi possiamo leggere nel codice genetico dell’uomo, percepiamo il
linguaggio di Dio. Ma purtroppo non il linguaggio intero. La verità
funzionale sull’uomo è diventata visibile. Ma la verità su lui stesso –
su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il
bene o il male – quella, purtroppo, non si può leggere in tal modo. Con
la crescente conoscenza della verità funzionale sembra piuttosto andare
di pari passo una crescente cecità per «la verità» stessa – per la
domanda su ciò che è la nostra vera realtà e ciò che è il nostro vero
scopo.
Che cos’è la verità? Non soltanto Pilato ha accantonato questa
domanda come irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile. Anche
oggi, nella disputa politica come nella discussione circa la formazione
del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità
l’uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il
campo ai più forti. «Redenzione» nel senso pieno della parola può
consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa
diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile. Egli diventa
riconoscibile in Gesù Cristo. In Lui Dio è entrato nel mondo, ed ha con
ciò innalzato il criterio della verità in mezzo alla storia. La verità
esternamente è impotente nel mondo; come Cristo, secondo i criteri del
mondo, è senza potere: Egli non possiede alcuna legione. Viene
crocifisso. Ma proprio così, nella totale mancanza di potere, Egli è
potente, e solo così la verità diviene sempre nuovamente una potenza.
Nel
colloquio tra Gesù e Pilato si tratta della regalità di Gesù e quindi
della regalità, del «regno» di Dio. Proprio nel colloquio di Gesù con
Pilato si rende evidente che non esiste alcuna rottura tra l’annuncio di
Gesù in Galilea – il regno di Dio – e i suoi discorsi in Gerusalemme.
Il centro del messaggio fino alla croce – fino all’iscrizione sulla
croce – è il regno di Dio, la nuova regalità che Gesù rappresenta. Il
centro di ciò è, però, la verità. La regalità annunciata da Gesù nelle
parabole e, infine, in modo del tutto aperto davanti al giudice terreno
è, appunto, la regalità della verità. L’erezione di questa regalità
quale vera liberazione dell’uomo è ciò che interessa.
Al contempo,
diventa evidente che tra la focalizzazione pre-pasquale sul regno di Dio
e quella post-pasquale sulla fede in Gesù Cristo come Figlio di Dio non
c’è alcuna contraddizione. In Cristo, Dio è entrato nel mondo, la
verità. La cristologia è l’annuncio diventato concreto del regno di Dio.
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