Ortodossia di G.K. Chesterton #5

Gilbert K. Chesterton

ORTODOSSIA

V
La bandiera del mondo

Quando ero un ragazzo c’erano in giro due tipi curiosi chiamati l’ottimista e il pessimista. Anch’io usavo costantemente queste parole, ma confesso volentieri di non avere mai avuto un’idea precisa del loro significato. L’unica cosa che sembrava evidente era che non potevano significare ciò che dicevano, perché la spiegazione comune era che l’ottimista considerava il mondo buono quanto poteva essere, mentre il pessimista lo considerava cattivo quanto poteva essere. Poiché, ovviamente, tali affermazioni erano entrambe farneticanti stupidaggini, bisognava cercare altre spiegazioni. Ottimista non poteva significare un uomo che crede che tutto sia buono e nulla sia cattivo. Perché questo non vuol dire niente: è come affermare che tutto sia a destra e niente sia a sinistra. Nel complesso, sono giunto alla conclusione che la convinzione dell’ottimista lo porti a ritenere che tutto sia buono tranne il pessimista, e che il pessimista invece consideri tutto cattivo tranne se stesso. Sarebbe sleale omettere completamente dall’elenco la definizione misteriosa, ma suggestiva, che dicono sia stata data da una bambina: «L’ottimista è un uomo che vi guarda negli occhi e il pessimista è un uomo che vi guarda i piedi». Non sono sicuro che questa non sia la definizione migliore di tutte. In essa c’è anche una specie di verità allegorica, perché forse contiene un’utile distinzione fra l’intellettuale più incupito, che pensa semplicemente al contatto incessante con la terra, e il filosofo più allegro, che considera piuttosto la facoltà primaria di vedere e scegliere la propria strada.

C’è, tuttavia, un errore di fondo nell’alternativa tra l’ottimista e il pessimista, il cui presupposto è che l’uomo osservi il mondo con occhio critico come se fosse alla ricerca di una casa, come se gli fosse mostrata di continuo una nuova serie di appartamenti. Se un uomo, nel pieno possesso delle sue facoltà, giungesse in questo mondo da un altro pianeta, potrebbe discutere se il vantaggio dei boschi in piena estate prevalga sullo svantaggio della presenza di cani rabbiosi, proprio come un uomo che cerca alloggio in una pensione potrebbe valutare la presenza di un telefono contro l’assenza della vista mare. Ma nessuno si trova in situazioni del genere. Un uomo si ritrova ad appartenere a questo mondo, prima di potersi domandare se sia bello appartenervi. Ha combattuto per la bandiera e spesso ha riportato eroiche vittorie, molto prima di essersi arruolato. Per riassumere ciò che sembra fondamentale, si può affermare che in lui la fedeltà precede di molto l’ammirazione.

Il concetto basilare che il mondo è bello anche se è strano, concetto che ho spiegato nel capitolo precedente, è meglio espresso nelle fiabe. Il lettore può, se vuole, passare alla fase successiva della narrativa di guerra o anche della letteratura patriottica, come fanno generalmente i ragazzi quando crescono. Se una sana moralità è comunemente diffusa, lo dobbiamo in gran parte ai romanzi d’appendice. Comunque, mi sembrava, e mi sembra tuttora, che il nostro atteggiamento verso la vita si possa meglio esprimere in termini di una specie di fedeltà militare piuttosto che in termini di critica e di approvazione. La mia accettazione dell’universo non è ottimista, è qualcosa che assomiglia di più al patriottismo. È una questione di fedeltà primaria. Il mondo non è una pensione di Brighton, da cui vogliamo andarcene perché troppo deprimente. È la fortezza della nostra famiglia, con la bandiera che sventola sulla torre, e più è miserabile meno la abbandoniamo. Il punto non è che questo mondo è troppo triste per essere amato o troppo felice per non esserlo, ma è che quando si ama qualcosa, la sua felicità è una ragione per amarla e la sua tristezza una ragione per amarla di più. Tutte le idee ottimiste sull’Inghilterra, e tutte quelle pessimiste, sono buone ragioni per il patriota inglese. Allo stesso modo, sia l’ottimismo sia il pessimismo sono argomenti validi per il patriota universale.

Supponiamo di doverci confrontare con una situazione disperata, diciamo Pimlico 1. Riflettendo su ciò che possa essere più utile nel caso di Pimlico, scopriremo che il filo dei nostri pensieri ci condurrà nel regno del misticismo e dell’arbitrio. Non basta condannare la situazione di Pimlico, chi lo fa o si tira la zappa sui piedi o farebbe meglio a trasferirsi a Chelsea 2. Non basterà nemmeno accettare Pimlico così com’è, non servirebbe a migliorare minimamente le sue orribili condizioni. L’unica via d’uscita sembrerebbe quella di affezionarsi a Pimlico: amarlo con un legame spirituale, senza alcuna ragione terrena. Se spuntasse qualcuno in grado di amarlo, a Pimlico si innalzerebbero torri d’avorio e pinnacoli dorati; Pimlico si adornerebbe come una donna quando è amata: perché gli ornamenti non servono a nascondere cose orribili, ma ad abbellire ciò che è già adorabile. Una madre non mette al suo bambino un nastro azzurro pensando che senza sarebbe brutto. Un innamorato non regala una collana alla sua ragazza per nasconderle il collo. Se la gente amasse Pimlico come le madri amano i loro figli, gratuitamente, perché sono i loro figli, nel giro di un anno o due il quartiere potrebbe diventare più bello di Firenze. Certi lettori diranno che questa è pura fantasia. Io rispondo che questa è la vera storia dell’umanità. È in tale modo che le città sono diventate grandi. Provate a tornare indietro, alle più lontane origini della civiltà, e scoprirete che sono legate a qualche antico altare di pietra o circondano un pozzo sacro. Un popolo, prima di rendere glorioso un luogo, lo venera. I romani non amavano Roma per la sua grandezza. Roma era grande perché i romani l’avevano amata.

Le teorie del contratto sociale nate nel XVIII secolo sono state criticate in modo troppo maldestro nel nostro tempo; nella misura in cui affermavano che, dietro ogni governo storico, c’è un’idea di consenso e di cooperazione, tali teorie erano manifestamente giuste. Ma quando suggerivano che l’uomo ha sempre aspirato all’ordine o all’etica per mezzo di un consapevole scambio di interessi reciproci, erano di gran lunga sbagliate. La moralità non è cominciata con un uomo che diceva a un altro: «Non ti picchierò se non mi picchierai»; non c’è traccia di un simile accordo. Esiste, invece, la testimonianza che entrambi gli uomini dicessero: «Non dobbiamo batterci a vicenda nel luogo sacro». Conquistarono la moralità salvando la religione. Non aspiravano al coraggio. Combattevano per difendere il santuario e scoprirono di essere diventati coraggiosi. Non coltivavano la purezza. Si purificavano per l’altare e scoprirono di essere puri. La storia degli ebrei è l’unico documento dell’antichità che la maggior parte degli inglesi conosce, ed è sufficiente per poter giudicare i fatti. I Dieci Comandamenti, che sono stati riconosciuti sostanzialmente comuni all’umanità, erano dei semplici comandi militari, un codice di ordini marziali emanato per proteggere una certa arca attraverso un certo deserto. L’anarchia era un male perché metteva in pericolo la santità. E solo quando istituirono un giorno sacro dedicato a Dio scoprirono di avere creato un giorno di festa per l’uomo.

Ammesso che questa devozione primitiva a un luogo o a una cosa sia una sorgente di energia creatrice, si può procedere col discutere di un fatto assai singolare. Sottolineando nuovamente il concetto che l’unico ottimismo giusto è una specie di patriottismo universale, che cosa si dirà del pessimista? Credo che si possa definirlo un antipatriota cosmico. E che dire dell’antipatriota? Penso che si possa definirlo, senza indebita amarezza, un amico candido. E di costui che cosa si può dire? È qui che finiamo per cozzare contro lo scoglio della vita reale e dell’immutabile natura umana.

Mi azzardo ad affermare che l’aspetto negativo dell’amico candido è il semplice fatto di non essere candido. Nasconde qualcosa: un cupo piacere tutto suo di dire cose spiacevoli. Nutre un desiderio segreto di ferire, non solamente di aiutare. Credo, senza dubbio, che questo sia ciò che rende una certa specie di antipatriottismo fastidioso agli occhi dei cittadini perbene. Non parlo (naturalmente) dell’antipatriottismo che infastidisce agenti di cambio nervosi e attrici brillanti: quello è solo patriottismo dichiarato. Chi dice che un patriota non può contestare la guerra boera prima che sia finita non merita una risposta intelligente; è come se costui affermasse che un figlio amorevole non deve mettere in guardia la propria madre che si trova sull’orlo di un burrone finché non sia precipitata. Tuttavia, esiste un antipatriota che provoca un’onesta collera nelle persone oneste, e credo che costui si possa definire come ho suggerito: è il candido amico senza candore; l’uomo che dice: «Mi dispiace annunciarvi che siamo rovinati», ma non è affatto dispiaciuto. Quest’uomo, fuori di retorica, può essere considerato un traditore, perché certe informazioni preoccupanti, che gli sono state trasmesse per sostenere l’esercito, le usa allo scopo di scoraggiare la gente ad arruolarsi. Giacché gli è permesso di essere pessimista come consigliere militare, sarà pessimista anche come ufficiale reclutatore. Proprio nello stesso modo il pessimista (che è l’antipatriota cosmico) usa la libertà che la vita concede ai suoi consiglieri per allontanare le persone dalla loro bandiera. Ammesso che parli solo di fatti, è comunque fondamentale conoscere le sue emozioni, i suoi intenti. Può darsi che a Tottenham milleduecento uomini si ammalino di vaiolo; ma vogliamo sapere se ad affermarlo è stato un grande filosofo che vuole maledire gli dèi, o qualche comune parroco che vuole aiutare gli uomini.

L’aspetto negativo del pessimista non sta nel fatto di biasimare gli dèi e gli uomini, ma di non amare ciò che biasima – non possiede infatti l’essenziale e soprannaturale fedeltà verso le cose. Qual è il lato negativo dell’uomo che comunemente è chiamato un ottimista? Com’è ovvio, si pensa che l’ottimista, desiderando difendere l’onore di questo mondo, difenderà l’indifendibile. È il patriota accanito del cosmo e dirà: «Questo è il mio universo, giusto o sbagliato che sia» 3. Sarà meno portato a cambiare le cose e più incline a fornire una specie di risposta ufficiale a ogni attacco, cercando di rassicurare tutti quanti. Non si limiterà a pulire il mondo, ma darà anche una mano di bianco. Tutto questo (che è vero per un certo tipo di ottimista) ci conduce all’unica questione psicologica realmente interessante, che non avrebbe potuto essere spiegata altrimenti.

Noi diciamo che deve esistere una fedeltà essenziale verso la vita; l’unica domanda che bisogna porsi è: sarà o non sarà una fedeltà soprannaturale? O, se preferite, sarà una fedeltà razionale o irrazionale? Ora, la cosa straordinaria è che il cattivo ottimismo (passare la mano di bianco, difendere l’indifendibile) va di pari passo con l’ottimismo razionale. L’ottimismo razionale porta alla stagnazione, è l’ottimismo irrazionale a condurre al cambiamento. Per spiegarlo meglio userò ancora una volta il parallelo del patriottismo. Chi più facilmente rovinerà il luogo che ama, sarà proprio colui che ha una buona ragione per amarlo. Chi permetterà al luogo di migliorare, invece, sarà colui che lo ama senza una ragione. Se un uomo ama certi aspetti di Pimlico (il che è alquanto improbabile), può ritrovarsi a difendere quegli aspetti contro lo stesso Pimlico. Ma se semplicemente ama Pimlico per se stesso, può demolirlo per trasformarlo nella Nuova Gerusalemme. Non nego che quel rinnovamento possa essere eccessivo, dico soltanto che ad attuarlo è il patriota mistico. Il puro autocompiacimento dei patrioti fanatici non è amore nei confronti dell’Inghilterra, ma una teorizzazione dell’Inghilterra. Se l’amiamo perché è un impero, forse potremmo sopravvalutare il successo con cui governiamo gli indù. Ma se amiamo l’Inghilterra solo perché è una nazione, possiamo affrontare qualsiasi evento, poiché sarebbe una nazione anche nel caso in cui fossero gli indù a governarci. Così, coloro che permetteranno al proprio patriottismo di falsificare la storia, sono quelli il cui patriottismo dipende dalla storia. Chi ama l’Inghilterra perché è inglese non darà eccessiva importanza alle origini della nazione. Ma chi ama l’Inghilterra perché è anglosassone può andare contro tutti i fatti a vantaggio della propria fantasticheria. Può finire per sostenere (come Carlyle e Freeman 4) che la conquista normanna fu una conquista sassone. Può mettersi a sragionare in modo assurdo, perché ha una ragione. Chi ama la Francia come nazione guerriera, sminuirà l’esercito del 1870. Ma chi ama la Francia perché è la Francia, cercherà di migliorare l’esercito del 1870. I francesi hanno fatto esattamente questo e la Francia è un ottimo esempio di un paradosso vivente. In nessun altro luogo il patriottismo è in assoluto più astratto e arbitrario e in nessun altro luogo il rinnovamento è più drastico e radicale. Più il patriottismo è trascendentale, più la politica è pratica.

Forse l’esempio più frequente riguardo tale punto è quello delle donne e della loro strana e assoluta fedeltà. Poiché le donne, come certi stolti affermano, sostengono sempre i loro uomini in tutto, sono cieche e non capiscono niente. Costoro devono averne conosciute ben poche di donne. Le stesse donne che sono pronte a difendere i loro uomini nelle cose piccole e grandi sono (nei loro rapporti personali con l’uomo) quasi morbosamente lucide circa la fragilità delle loro scuse o la grossolanità delle loro menti. Un amico, per quanto affezionato all’uomo, lo lascia così com’è; la moglie, invece, lo ama e cerca di cambiarlo. Le donne, estremamente mistiche nel loro credo, sono estremamente ciniche nelle loro critiche. Thackeray ha espresso bene questo concetto nel personaggio della madre di Pendennis 5, che adorava suo figlio come un dio eppure era convinta che sarebbe stato un fallito come uomo. Lei sottovalutava la sua virtù, anche se sopravvalutava il suo valore: essere estremamente devoti a qualcuno non impedisce di criticarlo, e il fanatico può sicuramente essere uno scettico. L’amore non è cieco, anzi, è tutto tranne che questo. L’amore è un vincolo, e quanto più è stretto, tanto meno è cieco.

Almeno, questa è la mia posizione riguardo a tutto ciò che chiamiamo ottimismo, pessimismo e miglioramento. Prima di considerare qualsiasi cambiamento cosmico, si deve compiere un giuramento di fedeltà cosmica. Un uomo deve essere interessato alla vita per avere delle opinioni disinteressate su di essa. «Figlio mio, dammi il tuo cuore»: il cuore si deve legare alla cosa giusta. Quando il cuore ha stabilito un legame saldo, la mano è libera di agire. Devo fare una pausa per anticipare una semplice osservazione. Si dirà che una persona razionale accetta che il mondo sia un misto di bene e male, con una dignitosa soddisfazione e una dignitosa pazienza. Ma questo è proprio l’atteggiamento che ritengo erroneo. Lo so, è molto comune in quest’epoca, e lo si trova anche perfettamente descritto in questi pacati versi di Matthew Arnold, che sono molto più pungenti e blasfemi degli strepiti di Schopenhauer:

Viviamo abbastanza – anche e se la vita,
Così scarsa di grandi risultati,
Benché sopportabile, sembri poco degna
Dei fasti mondani, della pena del nascere…6

So che questo sentimento è molto diffuso nella nostra epoca, la rende gelida, credo. Per i nostri progetti titanici di fede e rivoluzione, ciò di cui abbiamo bisogno non è una fredda accettazione del mondo come un compromesso, ma qualcosa che ci permetta di odiarlo fervidamente e di amarlo fervidamente. Non vogliamo che la gioia e il rancore si neutralizzino a vicenda e producano una triste soddisfazione, vogliamo una gratificazione più intensa, un malcontento più intenso. Dobbiamo percepire l’universo come il castello dell’orco, da prendere d’assalto, e al tempo stesso come la nostra villetta, dove possiamo tornare ogni sera.

Nessuno mette in dubbio che un uomo straordinario riesca ad adattarsi a questo mondo, ma noi chiediamo non di essere più forti per adattarci, ma che la nostra forza basti per mandare avanti il mondo. Quest’uomo fuori dal comune può odiarlo abbastanza da cambiarlo e amarlo abbastanza da credere che valga la pena di farlo? Può guardare il suo bene immenso senza provare mai un sentimento di approvazione? E può guardare il suo male immenso senza provare mai un senso di disperazione? In breve, può costui essere, contemporaneamente, non solo un ottimista e un pessimista, ma un ottimista fanatico e un pessimista fanatico? È abbastanza pagano da morire per il mondo e abbastanza cristiano da morire al mondo? In questa combinazione, sostengo che sia l’ottimista razionale a fallire, mentre sarà l’ottimista irrazionale a riuscire. Quest’ultimo è pronto a distruggere l’intero universo per il bene dell’universo stesso.

Ho buttato giù queste idee senza una sequenza logica meditata, ma così come mi venivano in mente. In seguito si sono chiarite e perfezionate grazie a un fatto occorso a quel tempo. Sotto la lunga ombra di Ibsen, si sollevò una discussione per stabilire se uccidersi fosse o meno una bella cosa. Alcuni moderni eruditi spiegarono che non si deve dire «pover’uomo» di chi si è fatto saltare il cervello, poiché si tratta di una persona invidiabile, e se lo ha fatto è stato solo perché il suo era un cervello eccezionalmente dotato. William Archer 7 suggerì persino che nell’età dell’oro ci saranno delle slot-machine grazie alle quali un uomo potrà suicidarsi per un penny. In relazione a tutto questo, mi ritenevo estremamente ostile ai tanti che si definivano liberali e umani. Il suicidio non è solo un peccato, è il peccato . È il male supremo e assoluto, il rifiuto di qualsiasi interesse per l’esistenza, il rifiuto di prestare il giuramento di fedeltà alla vita. L’uomo che uccide un uomo, uccide un uomo. L’uomo che uccide se stesso, uccide tutti gli uomini: annienta il mondo. Il suo gesto è peggiore (dal punto di vista simbolico) di qualsiasi stupro o attentato dinamitardo. Perché distrugge tutti gli edifici e offende tutte le donne. Il ladro è appagato dai diamanti, il suicida non lo è: questo è il suo crimine. Non si lascia corrompere nemmeno dalle pietre sfolgoranti della Città Celeste. Il ladro esalta gli oggetti che ruba, se non il loro proprietario. Ma il suicida insulta tutto ciò che esiste al mondo non rubandolo. Rifiutando di vivere per amore di un fiore, guasta tutti i fiori. In tutto l’universo non c’è una sola creatura minuscola per la quale la sua morte non sia una beffa. Quando un uomo s’impicca a un albero, le foglie potrebbero cadere incollerite e gli uccelli volare via furiosi, poiché ognuno di essi ha ricevuto un affronto personale. Naturalmente, un simile gesto può avere una pietosa giustificazione. Spesso ce ne sono anche per gli stupri e per gli attentati terroristici. Ma se il suicidio dipende da idee lucide e da motivazioni intellettuali, allora c’è molta più verità razionale e filosofica in una sepoltura a un crocicchio e in un palo piantato in un cadavere che nelle macchine automatiche per suicidarsi di Archer. Il fatto di seppellire il suicida separato dagli altri defunti ha un significato. Il crimine di quell’uomo è diverso dagli altri crimini, perché rende impossibili persino i crimini.

In quello stesso periodo ho letto una solenne scempiaggine di un libero pensatore: diceva che il suicida era una specie di martire. Questo innegabile errore ha contribuito a chiarire la questione. Il suicida, ovviamente, è l’opposto di un martire. Un martire è qualcuno che ama così tanto qualcosa che sta fuori di lui da dimenticare la propria vita. Il suicida è un uomo che ama così poco qualsiasi cosa stia fuori di lui da desiderare di vedere la fine di tutto. Il primo vuole che qualcosa cominci, il secondo vuole che tutto finisca. In altre parole, il martire è nobile, proprio perché (per quanto rinunci al mondo o detesti tutta l’umanità) confessa questo estremo legame con la vita e pone il suo cuore fuori da se stesso: muore affinché qualcosa possa vivere. Il suicida è ignobile perché non possiede tale legame con l’esistenza: è un semplice distruttore, spiritualmente distrugge l’universo. E allora mi sono ricordato del palo e del crocicchio e dello strano fatto che il cristianesimo abbia mostrato una inquietante durezza nei confronti del suicida. Perché il martire ha trovato nel cristianesimo un fervente incoraggiamento. Il cristianesimo storico è stato accusato, non completamente a torto, di portare il martirio e l’ascetismo a un livello desolato e pessimista. I primi martiri cristiani parlavano della morte con una terrificante felicità. Bestemmiavano i meravigliosi doveri del corpo: sentivano da lontano l’odore della tomba come se fosse il profumo di un campo di fiori. A molti questa è sembrata la celebrazione del pessimismo. Eppure, la sepoltura al crocicchio con il palo conficcato mostra ciò che il cristianesimo pensava del pessimista.

Questo era il primo della lunga serie di enigmi con i quali il cristianesimo ha affrontato una discussione. E in tale enigma c’era una peculiarità di cui dovrò occuparmi con maggiore rilievo, in quanto aspetto importante di tutte le idee cristiane, ma della quale ho già iniziato a parlare trattando l’enigma in questione. L’atteggiamento cristiano verso il martire e verso il suicida non era quello che nella morale moderna è affermato così di frequente. Non era un problema di gradualità. Non era come dover stabilire un limite entro il quale il suicida per esaltazione poteva cadere, mentre chi si suicidava per tristezza cadeva oltre. Evidentemente, nel pensiero cristiano non c’era l’idea che il suicidio significasse semplicemente spingere il martirio un po’ troppo oltre. Il pensiero cristiano era furiosamente a favore dell’uno e furiosamente contro l’altro: martirio e suicidio, in apparenza tanto simili tra loro, stavano agli estremi opposti del Paradiso e dell’Inferno. Un uomo gettava via la sua vita: era talmente santo che le sue ossa potevano curare un’intera città da una pestilenza. Un uomo gettava via la sua vita: era talmente dannato che le sue ossa potevano contaminare quelle degli altri defunti. Non dico che questa barbarie fosse giusta, ma perché tanta disumanità?

Qui ho scoperto per la prima volta che i miei passi incerti percorrevano una pista già battuta. Anche il cristianesimo aveva avvertito questa contrapposizione tra il martire e il suicida: l’aveva notata per il mio stesso motivo? Il pensiero cristiano coincideva con il mio, ma io non riuscivo (e non riesco) a esprimerlo? Perché provavo questo bisogno di essere fedele alle cose prima e di volerle cambiare poi a qualunque costo? Allora mi sono ricordato che era questa la reale accusa contro il cristianesimo: combinare le due cose che io cercavo disperatamente di mettere insieme. Il cristianesimo era accusato di essere troppo ottimista nei confronti dell’universo e nello stesso tempo troppo pessimista nei confronti del mondo. La coincidenza mi ha fatto rimanere improvvisamente impietrito.

Nella controversia moderna si è creata la stolta abitudine di affermare che il tale o il tal altro credo possa esser valido in un’epoca ma non in un’altra. Un dogma, dicono, era credibile nel XII secolo, ma non nel XX. Potremmo ugualmente dire che si può credere in una certa filosofia il lunedì, e smettere di credervi il martedì. Si potrebbe sostenere anche che una concezione del cosmo è accettabile alle tre e mezzo, ma non lo è più alle quattro e mezzo. Ciò in cui un uomo può credere dipende dalla sua filosofia, non dal trascorrere del tempo. Se un uomo crede in una legge naturale inalterabile, non potrà credere in nessun miracolo a nessuna età. Se crede in una volontà dietro la legge, potrà credere in qualsiasi miracolo a qualsiasi età. Supponiamo, per amore di discussione, di occuparci del caso della guarigione taumaturgica. Un materialista del XII secolo non poteva credere in essa più di un materialista del XX secolo. Ma uno scienziato cristiano del XX secolo può credervi quanto un cristiano del XII secolo. È semplicemente questione di ciò che l’uomo teorizza sulle cose. Perciò, nel caso di un quesito storico, il punto non è sapere se sia stata data una risposta nella nostra epoca, ma se alla nostra domanda sia stata data una risposta. E più pensavo a quando e a come il cristianesimo fosse giunto nel mondo, più sentivo che esso avesse effettivamente risposto a tale domanda.

In genere, sono i cristiani poco ferventi e latitudinari quelli che attribuiscono al cristianesimo elogi del tutto ingiustificabili. Parlano come se prima dell’avvento del cristianesimo pietà e devozione non fossero mai esistite, un punto sul quale qualsiasi uomo medievale sarebbe stato desideroso di correggerli. Costoro sostengono che nel cristianesimo la cosa più importante sta nel fatto che sia stato il primo a predicare la semplicità o l’autolimitazione, o l’introspezione e la sincerità. Credono che io sia molto limitato (qualsiasi cosa significhi) se affermo che l’aspetto più importante del cristianesimo è di essere stato il primo a predicare il cristianesimo. La sua peculiarità stava nel suo essere peculiare, e la semplicità e la sincerità non sono valori peculiari, ma ideali basilari dell’umanità. Il cristianesimo era la risposta a un enigma, non l’ultima verità inequivocabile proclamata alla fine di una conversazione. Ho letto, non più tardi dell’altro ieri, in un ottimo settimanale puritano un’osservazione secondo la quale il cristianesimo, quando è spogliato del suo dogma strutturale (come se si parlasse di un uomo privato della sua ossatura), diventa nient’altro che la dottrina quacchera della Luce Interiore. Ora, se dovessi dire che il cristianesimo è venuto nel mondo soprattutto per distruggere la dottrina della Luce Interiore, sarebbe un’esagerazione, ma si avvicinerebbe molto di più alla verità. Gli ultimi stoici, come Marco Aurelio, erano proprio coloro che credevano nella Luce Interiore. La loro dignità, la loro moderazione, la loro mesta ed esteriore attenzione verso gli altri, la loro incurabile e interiore attenzione verso se stessi erano tutte dovute alla Luce Interiore, ed esistevano solo per diffondere quella malinconica luce. Notate che Marco Aurelio, come simili moralisti dediti all’introspezione fanno sempre, insiste sulle piccole cose che egli ha fatto o non ha fatto; questo perché non prova a sufficienza né odio né amore per attuare una rivoluzione morale. Si alza presto al mattino, proprio come fanno i nostri aristocratici che vivono secondo la cosiddetta Vita Semplice, perché un tale altruismo è molto più facile da mettere in pratica che impedire i giochi dell’anfiteatro o restituire agli inglesi la loro terra. Marco Aurelio è il più intollerabile dei tipi umani. È un egoista disinteressato, cioè un uomo che possiede un orgoglio non giustificato dalla passione. Tra tutte le forme concepibili di illuminazione, la peggiore è quella che questa gente chiama Luce Interiore. Tra tutte le orribili religioni, la più brutta è l’adorazione del dio interiore. Chi conosce qualcuno sa come dovrebbe agire; chi conosce qualcuno dell’Higher Thought Centre 8 sa come agisce. Che Jones adori il dio dentro di sé, alla fine significa che Jones adorerà Jones. Che Jones adori pure il sole e la luna, qualsiasi cosa, ma non la Luce Interiore; che adori i gatti o i coccodrilli, se ne trova qualcuno in giro, ma non il dio dentro di sé. Il cristianesimo è venuto nel mondo innanzitutto per affermare con violenza che un uomo non solo non deve guardarsi dentro, ma deve guardare fuori – per osservare con stupore ed entusiasmo una divina compagnia e un divino capitano. L’unico divertimento dell’essere cristiani è il fatto di non essere lasciati soli con la Luce Interiore, ma di riconoscere nettamente una luce che viene dall’esterno, splendente come il sole, chiara come la luna, terribile come un esercito con tanto di stendardi.

In questo modo, sarà come se Jones non adorasse il sole e la luna. Se lo fa, tenderà a imitarli, come dire che se il sole brucia insetti vivi, anche lui potrà bruciare insetti vivi. Poiché il sole procura alla gente dei colpi di sole, lui crederà di poter procurare il morbillo al suo vicino di casa. Se la luna, come dicono, fa impazzire gli uomini, lui crederà di poter fare impazzire sua moglie. Questo lato negativo del puro ottimismo esteriore era presente anche nel mondo antico. All’epoca dell’idealismo stoico si cominciava a intravedere la debolezza del pessimismo, la vecchia religione della natura che professavano gli antichi aveva cominciato a mostrare l’enorme debolezza dell’ottimismo. L’adorazione della natura è tipica di una società primitiva o, in altre parole, il panteismo è valido finché è il culto del dio Pan. Ma la natura possiede un altro aspetto che l’esperienza e il peccato non tarderanno a scoprire, e non è irriverente affermare che il dio Pan ha mostrato ben presto il suo piede caprino. L’unica obiezione alla Religione Naturale è che in qualche modo diventa sempre innaturale. Un uomo ama la natura, al mattino, per la sua innocenza e piacevolezza, e al calare della sera, se la ama ancora, è per la sua oscurità e crudeltà. All’alba egli si lava in acque limpide come faceva il saggio degli stoici, tuttavia, quando il buio mette fine al giorno, si bagnerà nel sangue caldo di un toro, come Giuliano l’Apostata. Chi persegue unicamente la propria salute finisce sempre per ammalarsi. La natura fisica non deve diventare oggetto diretto di obbedienza; bisogna goderne ma non adorarla. Le stelle e le montagne non vanno prese sul serio. Se così fosse, finiremo dove è finito il culto pagano della natura. Poiché la terra è gentile, possiamo imitare tutte le sue crudeltà. Poiché la sessualità è sensata possiamo diventare tutti pazzi per il sesso. Il puro ottimismo ha raggiunto la sua folle e logica conclusione. La teoria per cui tutto era buono è diventata un’orgia di tutto ciò che era cattivo.

D’altra parte, i nostri pessimisti idealisti erano rappresentati dagli ultimi stoici. Marco Aurelio e i suoi amici hanno realmente abbandonato l’idea dell’esistenza di un qualsiasi dio nell’universo per cercare solo il dio interiore. Non avevano speranza di alcuna virtù nella natura e a malapena di una qualche virtù nella società. Non avevano un interesse sufficiente verso l’esterno per demolirlo realmente o rivoluzionarlo. Non amavano abbastanza la città per incendiarla. Così il mondo antico si trovava esattamente davanti al nostro stesso tormentato dilemma. Le uniche persone che realmente godevano di questo mondo erano occupate a distruggerlo e la gente virtuosa non si preoccupava abbastanza di loro per annientarli. In questo dilemma (che è anche il nostro) improvvisamente irruppe il cristianesimo e offrì una risposta singolare, che il mondo alla fine accolse come la risposta. Fu la risposta di allora e credo che sia la risposta di oggi.

Questa risposta era come il fendente di una spada: separava e in nessun modo univa sentimentalmente. In breve divise dio dal cosmo. Quella trascendenza e quell’unicità della divinità che oggi alcuni cristiani desiderano eliminare dal cristianesimo era veramente l’unica ragione per la quale tutti volevano essere cristiani. Costituiva l’intero nucleo dell’intera risposta cristiana all’infelice pessimista e all’ancora più infelice ottimista. Poiché qui mi preoccupo solo del loro problema peculiare, illustrerò brevemente questo grande suggerimento metafisico. Tutte le descrizioni del principio creatore e sostenitore delle cose devono essere metaforiche in quanto devono essere espresse verbalmente. Così il panteista è costretto a parlare di dio dentro tutte le cose come se fosse in una scatola. Così l’evoluzionista contiene, nel suo stesso nome, l’idea di un tappeto che si srotola. Tutte le parole religiose e non religiose sono suscettibili di tale accusa. L’unica questione è sapere se tutti i termini sono inutili, o se si può, con una frase simile, soddisfare un’ idea precisa sull’origine delle cose. Credo che si possa, ed evidentemente lo crede anche l’evoluzionista, altrimenti non parlerebbe di evoluzione. E la frase che stava alla radice di tutto il teismo cristiano era questa: Dio è un creatore, così come lo è un artista. Un poeta è talmente distaccato dalla sua poesia da parlarne egli stesso come di una piccola cosa che ha «buttato giù». Persino nel comporla se n’è distaccato. Il principio per il quale ogni creazione e procreazione sono un distacco è almeno tanto coerente in tutto il cosmo quanto il principio evoluzionistico per cui ogni crescita è un’espansione. Una donna perde il bambino nel momento in cui lo dà alla luce. Tutta la creazione è separazione. La nascita è un solenne distacco quanto la morte.

Il primo principio filosofico del cristianesimo consisteva nel fatto che questo distacco nell’atto divino della creazione (lo stesso che separa il poeta dalla poesia e la madre dal neonato) era la vera descrizione di quell’atto attraverso il quale l’energia assoluta ha creato il mondo. Secondo la maggior parte dei filosofi, nel creare il mondo, Dio l’ha reso schiavo. Secondo il cristianesimo, nel crearlo, l’ha liberato. Dio aveva scritto non tanto una poesia, quanto piuttosto una rappresentazione; un’opera teatrale che aveva progettato perfetta, ma che necessariamente era stata lasciata in mano a registi e attori umani che da allora ne hanno fatto un gran pasticcio. Più avanti, tratterò la verità di questo teorema. Qui voglio solo mettere in evidenza la tranquillità sorprendente con cui è stato sciolto il dilemma che abbiamo discusso nel presente capitolo. In questo modo, almeno, si può essere al tempo stesso felici e indignati senza abbassarsi a essere sia un pessimista sia un ottimista. Con questo sistema si possono combattere tutte le forze dell’esistenza senza disertare la bandiera dell’esistenza. Si può essere in pace con l’universo e, tuttavia, in guerra con il mondo. San Giorgio potrebbe combattere ancora il drago, anche se il mostro s’ingigantisse nel cosmo e diventasse più grande delle città possenti o più grosso dei colli perenni. Se fosse grande come il mondo, potrebbe sempre essere ucciso in nome del mondo. San Giorgio non doveva considerare stranezze o proporzioni ovvie nella scala di misura delle cose, ma solo il segreto originale del loro progetto. Può agitare la sua spada davanti al drago, anche se fosse la totalità delle cose, anche se il cielo vuoto sopra la sua testa fosse solo l’enorme arcata delle sue fauci aperte.

Poi è seguita un’esperienza impossibile da descrivere. Era come se mi fossi battuto alla cieca sin dalla nascita con due enormi e ingovernabili macchine di forme diverse e senza apparente connessione: il mondo e la tradizione cristiana. Avevo scoperto questa lacuna nel mondo: il fatto che si debba trovare un modo di amarlo senza fidarsi di esso; e che si debba in qualche modo amarlo senza essere materialisti. Ho individuato questa caratteristica marcata della teologia cristiana assimilabile a una punta tagliente: l’insistenza dogmatica che Dio era personale e aveva creato un mondo separato da se stesso. La punta del dogma coincideva perfettamente con la lacuna nel mondo – evidentemente era destinata a combaciare –, e poi una cosa strana ha cominciato ad accadere. Nel momento in cui queste due parti delle due macchine si sono unite, una dopo l’altra, tutte le altre parti hanno collimato e hanno ingranato alla perfezione. Riuscivo a sentire, un pezzo dopo l’altro, tutto il macchinario entrare in funzione con una specie di scatto di assestamento. Sistemata una parte, tutte le altre si muovevano con la stessa precisione, come un orologio che batte il mezzogiorno. Un istinto dopo l’altro è stato spiegato da una dottrina dopo l’altra. O, per usare un’altra metafora, ero come un uomo inoltratosi in un paese ostile per conquistare un’alta fortezza. E quando il forte è stato espugnato, l’intero paese si è arreso ed è diventato più saldo alle mie spalle. Tutto il territorio si è illuminato, come era stato ai tempi dei primi campi della mia infanzia. Tutte quelle cieche fantasie di bambino di cui, nel quarto capitolo, ho cercato invano di seguire le tracce nell’oscurità, sono diventate improvvisamente trasparenti e sensate. Avevo ragione quando pensavo che avrei quasi preferito dire che l’erba era del colore sbagliato piuttosto che affermare che doveva essere necessariamente di quel colore: avrebbe potuto infatti essere di un colore diverso. La mia percezione che la felicità fosse appesa al filo instabile di una condizione ha assunto un significato quando tutto è stato detto: significava l’intera dottrina della Caduta. Anche quei mostri foschi e informi che erano le nozioni che non sono riuscito a descrivere, e ancora meno a difendere, si avviavano silenziosi al loro posto come enormi cariatidi del credo. La fantasticheria che il cosmo non fosse sconfinato e vuoto, ma piccolo e accogliente, ora aveva un pieno significato, perché tutto ciò che è un’opera d’arte deve essere piccola cosa agli occhi di un artista. Agli occhi di Dio le stelle possono sembrare solo piccole e preziose come diamanti. E anche questo istinto ossessivo che mi diceva che, in una maniera o nell’altra, il bene non è soltanto uno strumento al nostro servizio ma una reliquia da conservare, come gli oggetti della nave di Crusoe, questo istinto non era altro che lo strano sussurro di qualcosa di originariamente giusto, perché, secondo il cristianesimo, eravamo veramente i sopravvissuti di un naufragio, l’equipaggio di un vascello d’oro affondato prima che il mondo avesse inizio.

Ma la questione importante era che tutto ciò ribaltava completamente la ragione dell’ottimismo. E nel momento in cui questo avveniva, dava l’impressione di essere come il brusco sollievo di un osso quando torna nella sua giuntura. Mi sono spesso definito un ottimista, per evitare la blasfemia troppo evidente del pessimismo. Ma tutto l’ottimismo di quest’epoca è stato falso e deprimente perché ha sempre cercato di dimostrare che noi siamo fatti per il mondo. L’ottimismo cristiano è basato sul fatto che noi non siamo fatti per il mondo. Ho cercato di essere felice dicendo a me stesso che l’uomo è un animale, come tutti gli altri che aspettano il nutrimento da Dio. Ma ora so che sono stato realmente felice, perché ho imparato che l’uomo è una mostruosità. Avevo ragione nel pensare che tutte le cose fossero strane, perché anch’io ero peggiore e al tempo stesso migliore di tutte le cose. Il piacere dell’ottimista era prosaico, perché risiedeva nel fatto che tutto è naturale, il piacere del cristiano era poetico, perché dimorava nel fatto che tutto è innaturale alla luce del soprannaturale. Il filosofo moderno mi aveva ripetuto più volte che io ero al posto giusto, eppure mi ero sentito ancora depresso, pur essendo d’accordo. Ma avevo saputo di essere al posto sbagliato, e la mia anima cantava di gioia, come un uccello in primavera. La consapevolezza ha scoperto e illuminato stanze dimenticate nella buia dimora della mia infanzia. Ora sapevo perché l’erba mi era sempre sembrata strana come la barba verde di un gigante e perché riuscivo a provare nostalgia pur trovandomi a casa.

1 Quartiere centrale di Londra. In origine zona residenziale borghese, a partire dagli anni ’90 del XIX secolo visse un periodo di declino e di degrado urbano che durò per circa tre o quattro decenni.

2 Quartiere centrale di Londra, adiacente a Pimlico. In età vittoriana divenne il quartiere residenziale preferito di artisti e scrittori e centro della vita culturale londinese.

3 Chesterton parafrasa la celebre espressione «My country, right or wrong» («Questo è il mio paese, giusto o sbagliato che sia») attribuita a Carl Schurz e indice di forte patriottismo.

4 Thomas Carlyle (1795-1881), filosofo e scrittore satirico scozzese di formazione calvinista, fu tra i primi a ribellarsi all’utilitarismo e al mito del progresso tipico del periodo vittoriano, contrapponendo alla società tecnologica una società spirituale all’insegna dei valori morali. Nell’epoca del materialismo e del cieco ottimismo, promuoveva l’ideale dell’austerità e il culto del lavoro, rappresentando nei suoi scritti i conflitti sociali tipici della rivoluzione industriale. Famoso per la sua mentalità severa e intollerante, a fine carriera assumerà nelle sue opere posizioni razziste e schiaviste. Edward Augustus Freeman (1823-1892), storico inglese e docente a Oxford, sostenne, in History of the Norman Conquest (1867-1879), che la conquista normanna non aveva determinato alcun cambiamento radicale nel carattere del popolo inglese.

5 Pendennis (1850).

6 Matthew Arnold, Resignation, in Poetical Works of Matthew Arnold (1890) .Arnold (1822-1888) fu un poeta e critico letterario britannico. Fu anche autore di numerosi saggi incentrati sui problemi religiosi e sociali dell’Inghilterra vittoriana, che considerava eccessivamente utilitarista, ottimista e unicamente interessata al progresso materiale. Influenzato da Spinoza, criticò l’aspetto superstizioso della religione, interessato soprattutto alla sua valenza sociale.

7 William Archer (1856-1924). Autore e critico drammatico scozzese (lavorò per il «London Figaro» e per il «World», e in seguito per altri giornali), esercitò grande influenza con i suoi scritti intransigenti. Impose al teatro inglese le opere di Ibsen, da lui stesso tradotte. Al termine dell’attività di critico si affermò come autore di successo con alcune commedie, fra cui la melodrammatica The Green Goddess (1920).

8 Movimento che sosteneva la capacità, da parte dell’Uomo, di padroneggiare ogni avvenimento, invece di esserne dipendente, e l’assoluta unicità del Creatore e della Creazione (causa ed effetto).

 

[…] continua