Il banchetto della vita eterna – Fr. M.D. Molinié, o.p.

Il banchetto della vita eterna

 

 

N. 5

Il banchetto della vita eterna

Nancy, Natale 1968

Miei cari Amici,

abbiamo tutti, un giorno o l’altro, la nostra piccola via di Da-

masco o la nostra notte di Pasqua, talora anche a più riprese.
Qualcosa di questo genere mi è accaduto nel 1953; poco dopo
(dal 5 al 13 agosto) ho predicato un ritiro da cui è scaturito tutto
quello che ho potuto dire o scrivere in seguito, ivi compreso la
Lotta di Giacobbe
.

Ho ritrovato degli appunti scritti dalle religiose domenicane
che hanno partecipato al ritiro, così ho pensato di offrirvi per
Natale una di queste diciassette conferenze, a titolo di primizia e
di consultazione.

Desiderate che faccia un ciclostilato di tutto l’insieme? Come
potrete giudicare voi stessi, lo stile è quello del linguaggio parlato
con i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti. Inconvenienti: è scritto
male o, piuttosto, non è per niente “scritto;” le idee sono per lo
più messe in evidenza mediante un’immagine, non sono analizza-
te né si collegano a un discorso didattico compiuto. Vantaggi: è

Lettera n.5

 

molto più vivo e meno “dotto” dei grandi ciclostilati, ma più in-
cisivo e molto più ampio delle Lettere agli Amici. Infine, l’aspetto
più interessante consiste nel fatto che questi appunti sono la
traccia di primo getto di quello che cerco di dire da quindici anni
e che ancora non si è esaurito.

Non ho redatto personalmente questi appunti e ve li lascio
nella loro spontaneità; li ho messi un po’ a posto per renderli qua
e là più chiari, ma ho rispettato la loro goffaggine non priva di
una certa vivacità.

Mi direte allora cosa ne pensate e, se la cosa v’interessa, mi
metterò al lavoro per l’insieme delle conferenze.

Buon Natale, nella pace che non si sente, ma “supera tutto ciò

che si sente.”

Fr. M.D. Molinié, o.p.

P.S. I testi del Ritiro non saranno rilegati insieme: le diciassette conferen-

ze saranno fornite separatamente (come quella che invio con la presente let-
tera). Se avete l’intenzione di ordinarle tutte, custodite con cura questa quarta
conferenza, che inserirete in seguito voi stessi tra le altre sedici.

Il testo in carattere ridotto non corrisponde a un passaggio più difficile,
come nei grandi ciclostilati, ma a una digressione. È dunque da leggere sa-
pendo che si tratta solo di una digressione (spesso più interessante del testo!).
Tutte le note a piè pagina sono state aggiunte nel 1968.

 

NOTA: La conferenza si trova ora nel Ritiro di Montlignon, che è stato stam-
pato. Fonte del libro Il coraggio di avere paura.

 

Il banchetto della vita eterna

 

Conferenza n. 4 – Giovedì sera

“Io sono la via, la verità e la vita… Nessuno viene al Padre se
non per mezzo mio… Come il Padre ha amato me (cioè infinita-
mente) così anch’io ho amato voi: rimanete nel mio amore…
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri,
come io vi ho amati (e non “come amate voi stessi,”questo non
basta)… Che l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in
loro.”

Sarebbe una grave colpa dimenticare queste parole, anche per
una sola ora della nostra vita. Ciò che sboccia in noi è la vita tri-
nitaria: non possiamo capire niente di noi stessi se non abbiamo
un’idea del mistero della Santissima Trinità.

Si tratta dell’amore con cui il Padre ama il Figlio ed il cui frut-
to è lo Spirito Santo. Questo amore è in noi. È molto più serio
che dire: bisogna che ci sia. La nostra responsabilità è più grave
se sappiamo che c’è e che non dobbiamo far altro che occupar-
cene. È questo che ci è offerto. Ci viene chiesto solamente di
non lasciar cadere a terra e non calpestare troppo questo germo-
glio che desidera sbocciare.

Conseguenza: non si tratta solo di amare Dio al di sopra di
tutto e gli uomini come fratelli, ma di entrare nell’amore sopran-
naturale di Dio. Ciò che ci attende non è l’immortalità ma
l’eternità.

“Questa è la vita eterna: che conoscano Te…” Conoscere il
Padre è sentire la sua paternità: non una paternità vaga, ma una
paternità divina, una paternità in senso stretto (tutte le religioni
hanno il presentimento della paternità di Dio, ma questo presen-
timento non basta, ci vuole molto di più).

Lettera n.5

 

Essere padre è comunicare la propria natura a un altro, è do-
nare a un figlio ciò che si è in se stessi. Un artista è il padre delle
sue opere nella misura in cui si esprime attraverso di esse. Il Ver-
bo è la perfetta espressione del Padre (lo splendore della sua glo-
ria).

L’uomo esprime Dio? In una certa misura, sì: è creato a sua
immagine e somiglianza perché la sua natura è spirituale. Tra il
mistero di Dio e il mistero dello spirito c’è qualcosa in comune.

 

Questo fa sì che la nostra condizione di creatura
spirituale abbia qualcosa di estremamente parados-
sale. Nella misura in cui la nostra situazione è quella
di una creatura, abbiamo dei limiti, la nostra natura
ha dei limiti. Ma in virtù della nostra natura spiritua-
le abbiamo qualcosa d’infinito: un aspetto di vuoto,
un aspetto di tabula rasa, capace di ricevere tutto, di
divenire qualunque cosa. Il nostro spirito può rice-
vere tutto, anche Dio: può vederlo faccia a faccia, se
questo gli è dato. È la nostra più grande nobiltà.

La dimensione infinita del nostro spirito ha delle
conseguenze pratiche formidabili. Il mistero del
peccato prende origine in questa doppia tastiera del-
la vita di ogni spirito: la tastiera positiva (i tasti bian-
chi), che si radica nella natura con i suoi limiti e la
tastiera negativa o “concava” (i tasti neri), ma senza
limiti: la capacità di accogliere Dio. Dare la prefe-
renza a Dio nella nostra vita, vorrà dire dare la pre-
ferenza a questa passività.

A partire da questo, acquistano tutto il loro signifi-
cato un certo numero di parole: silenzio, attesa, pa-
zienza, consenso, “lasciarsi fare;” sono cose che
hanno valore perché solo esse ci permettono di ri-
cevere Dio e di riflettere l’infinito.

Il banchetto della vita eterna

 

Tutta la vita dell’uomo è la storia di questo conflitto
tra la sua attività e questo silenzio.

 

Ogni spirito, per la dimensione infinita che possiede, è capace
di accogliere Dio. Poiché è creato a sua immagine, c’è una certa
somiglianza tra Dio e la natura umana. Perciò, si può dire in sen-
so lato che quando Dio crea un uomo gli comunica qualcosa del-
la sua natura: questo è sufficiente per stabilire una certa paternità,
ma solo in senso lato, perché c’è ancora un abisso tra lo spirito
creato e la natura divina.

Quando però l’Amore del Padre e del Figlio ci è donato (lo
Spirito Santo), ci viene donata la natura divina stessa: proprio
questo separa l’Antica dalla Nuova Alleanza.33 A partire dal dono
della grazia, Dio comunica all’uomo la sua natura in modo del
tutto rigoroso, tanto quanto un padre comunica la natura umana
al figlio.

Tra l’artista e la sua opera c’è un abisso, ma se l’artista potesse
creare un altro uomo che lo esprimesse integralmente, sarebbe
un’altra cosa. Ed è esattamente quello che Dio fa nella Trinità34 e
in noi. Dio ci genera per adozione così strettamente come genera
il suo Verbo per natura: diventiamo suoi figli in senso stretto – e
neanche suoi figli, ma il Figlio di Dio: non ce n’è che uno. Quan-
do Dio perde uno di noi perché smettiamo di amarLo, perde suo
Figlio: c’è un volto di suo Figlio che è morto, in noi. I santi que-
sto lo capiscono. Ecco perché, quando cominciano a dire “Padre
Nostro,” si fermano… non possono proseguire. Comprendono
ciò che vedremo nell’eternità…

33 L’Antica Alleanza non conosceva il dono della grazia, benché la grazia fosse già
donata.
34 Per generazione e non come un’opera d’arte.

Lettera n.5

 

Che questo germe che è in noi non dorma. Tutti i cristiani in
stato di grazia sono il Verbo eterno, ma se non coltivano in loro
lo spirito d’infanzia, lasciano morire il Figlio. Lo spirito
d’infanzia non è un pio atteggiamento che si assume per esser
buoni: è l’anima del Verbo. Il primo a possedere lo spirito
d’infanzia è il Verbo,35 e la via d’infanzia non è una via a buon
mercato, è il segreto di Cristo.36 Non c’è che lo spirito d’infanzia
che possa scrutare le profondità del Padre: ora, noi abbiamo il
dovere di scrutarle, non abbiamo il diritto di fermarci alla pater-
nità in senso lato.

Eviteremmo molte inquietudini, molte indelicatezze nei con-
fronti di Dio, se Lo considerassimo come Padre. Quando i cri-
stiani discutono su cosa si dovrebbe fare riguardo al mondo mo-
derno e si lasciano turbare, significa che non hanno capito, si so-
no fermati alla paternità in senso lato.

Alcune insegnanti, dopo aver assistito ad una confe-
renza sulla letteratura noir, erano piuttosto disorien-
tate poiché si rendevano conto che si trattava del
pane quotidiano dei giovani… Che fare? Che fare?

Davanti a tanto smarrimento avevo l’impressione
che la loro casa non fosse costruita sulla roccia. Si
sentivano perse perché tutto va in rovina: scompare
il senso della famiglia e dell’onore, ogni virtù natura-
le è sistematicamente polverizzata, annientata da
questa letteratura che si alimenta di catastrofi e
riempie la nostra generazione di tenebre.

35 Più esattamente il Verbo possiede lo spirito filiale, primo componente dello spirito
d’infanzia; la creatura vi aggiunge una sfumatura di piccolezza che si rifugia. Cfr. Un
feu sur la terre
, Volume IV, La Vision face à face, pagg. 125 ss.
36 Di qui, in liturgia, l’importanza del periodo natalizio.

Il banchetto della vita eterna

 

È certo che i valori naturali stanno per fare naufra-
gio, ma proprio questo dimostra che non bastano.
Ci sono dei periodi in cui Dio permette che tutto
crolli perché appaia chiaro che nulla regge. Questo
non dovrebbe smontarci. Nietzsche aveva procla-
mato che Dio era morto:37 questa affermazione ha il
vantaggio almeno di essere radicale. Di fronte a tut-
to questo, c’è una sola cosa da fare: essere cristiani.

Dio è morto? C’è del vero.38

È morto un Dio dei cristiani, un Dio che è Padre in
senso lato e viene a coronare da lassù (il più lontano
possibile) una vita fondata sui valori umani: questo
Dio è morto non il Venerdì Santo, ma la sera della
caduta. Solo il Dio Salvatore non è morto, solo il
Padre in senso stretto risponde, e se non lo fa è per-
ché non vogliamo rivolgerci a Lui. Credete che
permetta con gioia le rovine che si vanno accumu-
lando dal 1914?

Il nostro Dio è un Dio di pace e niente sfugge alla
sua Provvidenza. Allora, perché i campi di concen-
tramento? Perché non ricorriamo a Lui come Egli
vuole.

Non sono i governi, né gli uomini di genio, né gli uomini

d’azione che sorreggono l’umanità, ma sono gli adoratori. Dio
non chiede loro una gran cosa, solo di credere. Se rifiutano anche

37 Non aveva però previsto che i teologi avrebbero fatto altrettanto: penso che di
fronte a loro si sentirebbe un po’ perso, persino figlio di un antiquato spiritualismo.
38 Lo spirito di questa affermazione è profondamente diverso da quello dei teologi
della morte di Dio, come prova il seguito. È morto il Dio “valore supremo” di colo-
ro che non sperano affatto di avere a che fare con Lui e diventare dei mistici, di quel-
li la cui pratica religiosa senza amore grida con molta più efficacia della bestemmia
tormentata di Jacques Prévert: Padre nostro che sei nei cieli, restaci…

Lettera n.5

 

solo un po’ di credere, tutto il resto viene di seguito: il germe del
peccato, non trovando più ostacoli, si sviluppa.

“Il mondo intero, dice San Giovanni, è nelle mani del Mali-
gno.” È una fortezza di ghiaccio che non vuole amare, e Dio
l’assedia. Cerca delle brecce: sono gli adoratori… Bisogna creder-
ci. Questo significa salvarsi “insieme:” Dio non ha bisogno di
dimenticare il singolo per essere universale. “Salvarsi l’anima”
resta un dovere altrettanto rigoroso come un tempo,
nell’interesse stesso degli altri.

Se cercate febbrilmente, con inquietudine, cosa bisogna fare di
fronte a questo mondo in cui tutti i valori crollano, non avete
capito che Dio vuole essere il solo a salvarci: ne va della sua glo-
ria. Quando si fa affidamento sull’azione o sui valori naturali, si
attenta alla gloria di Dio.

In altre parole dobbiamo accettare di essere dei mistici nel ve-
ro senso della parola, cioè degli esseri che sono penetrati in un
segreto, il segreto del nostro amico, del nostro salvatore: questo
segreto è la vita trinitaria, e per entrarvi dobbiamo accettare di
condurre una vita in cui perdiamo piede… è tutto il sale della vita
mistica.

Questa necessità (di perdere piede) può essere fonte di un au-
tentico dramma. Una storia vera vi aiuterà a capire. Una mamma
aveva due figli, uno di quattro e l’altro di sette anni. Giocava
spesso a farli girare intorno a tutta velocità tenendoli per i polsi.
Un giorno disse loro: “È molto tempo che non giochiamo a gira-
re. Volete?” Il più piccolo rispose subito: “Oh sì, sì!” Ma il più
grande: “D’accordo, ma non più veloce di quanto voglio io.” Il
più piccolo era ancora un mistico; il più grande non lo era più,
aveva “superato” lo spirito d’infanzia, voleva essere “adulto e
responsabile.”

Il banchetto della vita eterna

 

Dobbiamo accettare di essere trascinati in un movimento in
cui siamo certi di essere superati, di non aver stabilità. Può darsi
che mi sbagli, ma ho l’impressione che i richiami del Sacro Cuore
e le apparizioni della Madonna manifestino ciò che da parte mia
talora sento (fino a star male): che proprio i cristiani rifiutano di
lasciarsi trasportare al di là di tutto. Accettano di correre, ma non
vogliono volare… Ora, bisogna chiudere gli occhi, volare, partire
per l’avventura, “perdere la propria vita,” lasciare tutto e seguire
Gesù Cristo.

Si sente che c’è qualcosa che non va. Si dice: “Non subito…”
come gli invitati al banchetto. Il banchetto non può essere altro
che la vita eterna. I servi dicono che tutto è pronto fin d’ora, e
fin d’ora si deve andare: il giudizio che subiremo ruota attorno a
questo problema.

Se non volete saperne, non fate la comunione. Tutto è possi-
bile all’amore di Dio, ma noi non lo lasciamo fare. Se sono vee-
mente è perché credo che Dio lo sia di più. Pio XII, al Congresso
Eucaristico, ha affermato che c’è una sola risposta allo smarri-
mento del mondo attuale: l’Eucaristia, cioè il banchetto del cielo
sulla terra. Non possiamo comprendere Dio finché cerchiamo
un’altra risposta. La fiamma della vita divina sarebbe abbastanza
violenta da travolgere tutto, se i cristiani la lasciassero divampare:
“Sono venuto a portare un fuoco sulla terra; e qual è il mio desi-
derio, se non che si accenda?”

Il giudizio che subiremo è questo, ed è meglio subirlo fin
d’ora. Accettate che ciò vada fino al fuoco? Amare Dio ci sta be-
ne, ma a condizione che le cose non vadano troppo veloci, non
siano troppo forti, troppo sconcertanti – troppo “non come si
vorrebbe.”

Facendo così resistiamo al pungolo e in definitiva ci rendiamo
la vita molto più difficile, molto più dura: compiamo delle pro-
dezze estenuanti per evitare di diventare santi. Eppure sarebbe

Lettera n.5

 

più semplice fare quanto Dio ci chiede. Purtroppo la nostra resi-
stenza è subdola, si nasconde in fondo all’anima, evitando accu-
ratamente di apparire in piena luce, perché teme la luce più di
ogni altra cosa.

Bisogna invece domandare instancabilmente che questa Luce
ci mostri in che maniera abbiamo abitualmente ripugnanza a la-
sciarci fare. Provate a immaginare cosa ha potuto significare per
Alphonse Ratisbonne39 vedere tutta la sua filosofia spazzata via
da un giorno all’altro. In fondo tutta la nostra esistenza consiste
in questo: accettiamo che la nostra idea della vita, così come ce la
siamo costruita, vada all’aria? Accettiamo di ripartire da zero di-
cendo: non avevo capito niente? (E una volta che si è capito, si
ricostruisce la “baracca:” si deve sempre ricominciare da capo).

I comandamenti di Gesù non sono delle esigenze di giustizia,
ma di amore: traducono le leggi dell’amicizia. Sono anche delle
leggi, ma non presentano un carattere aspro e terrificante. Non
vuol dire che non siano temibili, anzi lo sono più ancora di una
legge di timore, ma in un altro modo. Quando pecchiamo contro
l’amore, la pena è nella ferita dell’essere amato… ed è la cosa peg-
giore. Ma è estremamente sottile. L’amico offeso tace, non ci
manda i gendarmi, così possiamo benissimo non accorgerci di
nulla. Solo quando cominciamo a risanare la ferita e scopriamo il
punto sensibile, solo allora ci svela la sua pena: altrimenti conti-
nuerà a non dire niente.

Se chiedete con rettitudine di essere illuminati, lo sarete, ma
non pretendete un programma tagliato su misura! Se chiedete a
Dio dei rendiconti, se discutete per sapere in cosa siete stati col-
pevoli, non ne uscirete… Quando si è offeso un amico, non biso-
gna tornare discutendo. Bisogna dire: “Devo aver fatto qualcosa

39 Figlio di un banchiere ebreo, convertito da un’apparizione della Santa Vergine
quasi subito dopo aver accettato di portare la medaglia miracolosa.

Il banchetto della vita eterna

 

che ti dispiace, non vedo bene cosa, ma ti chiedo perdono in an-
ticipo e senza sapere,” questo è il miglior esame di coscienza. Se
vogliamo conoscere in cosa abbiamo recato dispiacere a Dio,
prima di tutto non dobbiamo giustificarci, altrimenti siamo dei
farisei. Non è sui punti in cui ci crediamo colpevoli che siamo
più colpevoli, ma su quelli in cui crediamo di non esserlo.

L’ordine dell’amicizia è un ordine speciale: bisogna gettarsi
dentro ad occhi chiusi. Lasciamoci fare, accettiamo le umiliazioni
più intime, non irrigidiamoci interiormente aggrappandoci a un
ideale di noi stessi, un “super–io.” Ciò che Giovanni scrive
all’angelo della Chiesa di Laodicea, è a noi che lo scrive: “Tu non
hai visto che sei povero, spoglio, nudo e non hai voluto presen-
tarti così a me, hai voluto fare come se fossi vestito…” Ebbene, è
un’indelicatezza. Solo un’indelicatezza, ma è terribile. Noi siamo
miserabili a una tale profondità che ci vuole un intervento specia-
le di Dio per mostrarcelo. Se non vogliamo saperne, Dio non ci
può far nulla, è timido…

Prendete ad esempio la Santa Vergine. Qual è il suo tratto
dominante? Non s’impone, è discreta, non verrà da voi se non
glielo chiederete. “Alla sera della vita saremo giudicati
sull’amore” – ma saremo giudicati sulla delicatezza più che
sull’intensità dell’amore, perché l’intensità è affare di Dio, la deli-
catezza è affare nostro: basta metterci del proprio.

È difficile volere, ma non è difficile potere. Rileggete quello
che era il Capitolo XI della Storia di un’Anima40 (il messaggio di
Teresa è il messaggio della Santa Vergine al mondo moderno,
affidato a uno dei suoi figli). Teresa canta tutti i suoi desideri: es-
sere dottore, sacerdote, rifiutare per umiltà di essere un sacerdo-
te, e sopra ogni cosa il martirio – tutti i martìri… sua sorella è

40 Nei Manoscritti autobiografici è la lettera a suor Maria del Sacro Cuore.

Lettera n.5

 

sgomenta: “Lei è posseduta dall’amore divino come si è possedu-
ti dal diavolo! Ma io non posso seguirla.” Teresa risponde: “Non
ha capito niente: i miei desideri sono delle ricchezze, sono doni
che Dio potrebbe togliermi per dare a lei cento volte di più. Non
è questo che gli piace nella mia anima; ciò che gli piace, è veder-
mi amare la mia piccolezza e il mio nulla. Tutte le anime senza
desideri e virtù sono adatte alle operazioni dell’amore.”

Ci si trova davanti al fatto incredibile che quasi nessuno accet-
ta le regole del gioco, perché richiede una conversione del giudi-
zio. Il nostro pensiero si scontra con quello di Dio, e non vuole
cedere. Bisogna convertirsi, cioè cambiare giudizio. Siamo come
dei nuotatori che vanno a fondo e cercano disperatamente di
tornare a galla. È proprio quello che non bisogna fare, bisogna
andare a fondo, lasciarsi cadere fino in fondo: solo allora si potrà
risalire de profundis. Non siamo mai abbastanza a fondo. Una pre-
ghiera che viene de profundis è sempre esaudita immediatamente
perché sgorga dal profondo della nostra miseria. Per questo Dio
ci incalza, perché ha voglia di esaudirci. Come Giacobbe, abbia-
mo tutti la nostra ferita interiore: è il mezzo provvidenziale di cui
Dio vuole servirsi per esaudirci… ma non sappiamo servircene:
“Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio Nome, Egli ve la
darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio Nome.”

La preghiera scava in noi un vero grido che non riesce a sgor-
gare, ma che finirà per sgorgare un giorno. Quel giorno otterre-
mo tutto. Non c’è altro mezzo, né altro programma. Se ne vo-
gliamo un altro (con ostinazione), passeremo per il Purgatorio.
Dio vuole che portiamo frutto: per portare frutto, e perché il no-
stro frutto rimanga, non c’è altro da fare.