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Ven. Lug 4th, 2025

Tra accidente ed eternità: abitare la mancanza

 

Introduzione

Viviamo sospesi tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, tra la realtà che muta e il desiderio di qualcosa di pieno, stabile, eterno. In questa tensione nasce la mancanza, esperienza comune eppure profondamente misteriosa. Perché sentiamo l’assenza? E come può essa cessare, se viviamo nel tempo dell’accidente? È possibile abitare la mancanza senza esserne consumati?

 

Il luogo della mancanza

Nel linguaggio filosofico, l’“accidente” è ciò che non sussiste da sé, ma dipende da altro: è temporale, instabile, soggetto a mutamento. L’eternità, al contrario, è ciò che permane, che non ha bisogno di altro per essere. L’essere umano si trova esattamente nel mezzo: esposto al tempo, ma capace di intuire l’eterno.

La mancanza nasce proprio da questa condizione intermedia. Ci accorgiamo che nulla dura, che ogni bene che afferriamo è destinato a cambiare, a fuggire. Eppure, continuiamo a desiderare ciò che non può finire. Questo desiderio stesso, questa “assenza sentita”, è forse la prova più chiara che siamo fatti per l’eternità.

 

La mancanza come via

Nella visione cristiana, la mancanza non è solo un difetto dell’esistenza, ma un segno. Essa indica che non siamo chiusi in noi stessi, ma aperti a un Altro. Sperimentare l’assenza è una forma di attesa: la nostra creaturalità si tende verso qualcosa — o meglio, verso Qualcuno — che solo può colmare ciò che ci manca. La pienezza che cerchiamo non si trova in un possesso mondano, ma in un incontro definitivo.

Nel tempo, dunque, la mancanza è una pedagogia: ci educa all’eternità, ci insegna a non assolutizzare ciò che passa, e a vivere ogni cosa come segno. Non si tratta di disprezzare il mondo, ma di leggerlo come anticipazione.

 

Viverla nel quotidiano

Come si può, allora, abitare la mancanza?

Alcuni atteggiamenti concreti aiutano:

  • Accogliere l’assenza come apertura all’altro: ogni mancanza vissuta con verità ci spinge a uscire da noi, a cercare il volto dell’altro, a riconoscere che non siamo autosufficienti.

  • Vivere di speranza: non una speranza vaga o ingenua, ma una fiducia concreta che ciò che ci è promesso — la pienezza, la verità, l’amore eterno — troverà compimento, anche se non ancora.

  • Praticare una sobrietà interiore: imparare a non colmare il vuoto con rumore, consumo o fuga, ma a restare nel silenzio abitato, lasciando che il desiderio maturi e si purifichi.

  • Riconoscere una Presenza nella mancanza stessa: il Cristo crocifisso, che ha vissuto il grido dell’abbandono, ha reso l’assenza il luogo più alto della rivelazione. In Lui, la mancanza non è più vuoto, ma promessa di una Presenza che compie.

 

Conclusione

L’assenza non è destinata a durare per sempre. Ma finché siamo nel tempo, essa è la nostra condizione, e può diventare luogo di verità. Se vissuta alla luce dell’eternità, non ci chiude nella nostalgia ma ci apre all’incontro. È una ferita, sì, ma che può diventare porta. Perché solo chi conosce la sete può accogliere la sorgente.

 

Verità Eterna

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