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Ven. Lug 4th, 2025
Incontrarsi alla fine. Tempo ed eternità
da: http://www.credereoggi.it/upload/2015/articolo206_71.asp
Gilberto Depeder

La teologia, quale riflessione sull’esperienza e sul dato di fede, ha il diritto e il dovere di intervenire, in dialogo con le altre scienze, quando si riflette su di una realtà – quella del tempo e del suo rapporto con l’eternità – che affonda le radici in profondità nello spirito dell’uomo, interrogando la sua consapevolezza di essere situato nel mondo, senza peraltro risolversi ed esaurirsi entro coordinate puramente spazio-temporali.
Una prima percezione immediata, per la verità non esclusiva del cristianesimo, vede nella temporalità la dimensione costitutiva dell’essere umano, mentre nell’eternità la dimensione propria del divino, colui che esiste «da sempre» e ha in se stesso la ragione del proprio esistere[1]. Indagare il connubio tra queste due dimensioni ci consente pertanto di esplicitare il discorso relativo alla consistenza del mondo e dell’uomo in esso, alla luce della sua relazione con Dio. Mentre altri contributi del presente fascicolo si sono impegnati a chiarire il significato del tempo, in queste poche pagine cercheremo di pizzicare alcune corde fondamentali della dogmatica cattolica, stimolati dall’interrogativo sul rapporto tempo-eternità[2]: dopo una breve apertura volta a trovare l’accordo di fondo tra le due realtà, introdurremo tre temi maggiori della grande sinfonia teologica cristiana, accennando qualche modulazione che permetterà – mi auguro – di meglio apprezzare il nostro vivere nel tempo e nell’attesa.

1. Tempo ed eternità: un’alleanza possibile e feconda

Dopo che la scienza ha evidenziato il legame indissolubile del tempo non solo con lo spazio, ma anche con l’energia e la materia, a maggior ragione oggi non riusciamo a pensare che l’eternità equivalga a un protrarsi infinito del tempo, né tanto meno al ripetersi continuo di un tempo ciclico nell’eterno ritorno dell’uguale, come poteva essere ad es. nell’orfismo[3]. L’eternità si troverebbe così dissolta nel tempo, reso a sua volta infinito; fino ad arrivare all’assurdo di negare il male, o – peggio – a giustificarlo. In ogni caso, si profilerebbe la rassegnazione al non senso, al dominio dell’irrazionale.
Siamo allora costretti ad affermare una contrapposizione tra i due termini del rapporto, come se soltanto al di là del tempo ci fosse «posto» per l’eternità? Se è vero che l’eternità è la dimensione propria di Dio, mentre la nostra è la temporalità, ciò non significa che la prima annulli la seconda. Non c’è semplice continuità e omogeneità tra le due realtà, come non ci può essere omogeneità tra l’assoluto e il contingente, tra Creatore e creatura; ma non c’è nemmeno contrapposizione e negazione. È possibile invece riconoscere un’alleanza positiva e feconda, cogliendo il significato profondo del tempo, il senso del suo scorrere inesorabile, grazie a una concezione dell’eternità come realtà costitutiva del tempo stesso, una totalità che lo abbraccia interamente: «Aeternitas [Dei] omnia tempora includit»[4].
La testimonianza biblica evidenzia chiaramente che Dio, in quanto eterno, è superiore al tempo e lo trascende (cf. ad es. Sal 90,4; 102,28; 2Pt 3,8), ma anche che egli ha un rapporto autentico e positivo con esso. Basti pensare all’affermazione del mondo creato da Dio e ai suoi interventi nella storia della salvezza; in particolare, si pensi a Gesù di Nazaret, che come Figlio di Dio entra nel mondo facendosi carne, e come risorto con il suo vero corpo e asceso al cielo, apre all’uomo l’orizzonte di una vita eterna nella comunione con Dio. Tutti elementi che rompono lo schema di una ciclicità chiusa, di una cieca necessità o di un non-senso che ci sovrasta; mettendo a fuoco invece, come evidenzia il titolo di questa relazione, che ciò che ci attende alla fine è in realtà un orizzonte di incontro.
È pertanto possibile dire qualcosa sull’alleanza buona tra tempo ed eternità, perché l’Eterno entra (il presente è d’obbligo!) nel tempo e apre a quest’ultimo l’accesso all’eternità[5]. In effetti, tenere insieme questi due poli, pur nella necessaria distinzione tra storia ed escatologia, significa tenere insieme il Dio trascendente e assoluto e il mondo materiale, mutevole e contingente: senza che il primo sia la negazione ma nemmeno la proiezione del secondo.
Intendiamo rendere conto della legittimità di tale affermazione mediante uno sguardo puntato all’inizio, o meglio in principio (la creazione) e, ancor più, cercando di scrutare la fine, o meglio, il fine (la parusia, aperta dalla risurrezione di Cristo). L’alleanza in oggetto risulta effettivamente buona, perché l’eternità si offre da un lato come il fondamento e la condizione di possibilità del tempo, d’altro lato come suo compimento e consumazione.

2. L’eternità nel tempo: creazione in Cristo

«In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Il rapporto tra tempo ed eternità appare evidente nella creazione, che non avviene di per sé prima di ogni altra cosa, ma più precisamente «in principio» (cf. Gen 1,1). L’espressione non identifica tanto l’inizio cronologico dell’universo, l’istante del big bang; su di un altro piano rispetto a quello fisico-cosmologico, intende affermare piuttosto che Dio è al fondamento, a capo di ogni cosa, come causa ultima di tutto ciò che esiste, e che mantiene una relazione permanente e positiva con la sua creazione. Nessuna spiegazione scientifica delle origini del mondo potrà allora negare l’esistenza di Dio; come d’altro canto il racconto genesiaco non toglie affatto plausibilità alla prospettiva di un universo in evoluzione.
Propriamente, Dio non ha creato il mondo nel tempo, ma con il tempo. Notava sant’Agostino nelle Confessioni che non ha senso chiedersi «cosa faceva Dio prima di fare il cielo e la terra» (Conf. XI,12), perché non c’è un tempo – quindi nemmeno un «prima» cronologico – rispetto alla creazione: «Non ci fu dunque un tempo durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l’hai fatto tu» (Conf. XI,14)[6]. In merito al fondamento della creazione, possiamo e dobbiamo parlare piuttosto di un «prima» assiologico, cioè di una fondazione metafisica di tutto ciò che esiste. Se già Agostino rilevava l’inconsistenza ontologica del tempo e la necessità di ricorrere ad altro da esso per trovarne il senso, Tommaso d’Aquino vedrà nel dinamismo della vita stessa di Dio, segnatamente nelle processioni eterne delle persone divine in seno alla Trinità (la generazione eterna del Figlio e la spirazione eterna dello Spirito), la causa e la ragione ultima della produzione delle creature[7]. La teologia cristiana riconosce così una corrispondenza tra il dinamismo eterno della vita divina e il processo temporale della creazione del mondo. Dio non è «monade assoluta», «motore immobile», ma è in se stesso – da sempre, «prima» della creazione – dinamismo di amore che si dona: eterno Amante, eterno Amato, Vincolo stesso dell’amore; Padre che genera eternamente il Figlio nel vincolo dello Spirito d’amore. La creazione è pertanto espressione ad extra, contingente e finita (nel/con il tempo, appunto) di quel dinamismo eterno che vede già in Dio l’alterità delle Persone nell’unità della natura/sostanza divina. Quell’atto eterno di generazione e amore, di distinzione e comunione, è fondamento e condizione di possibilità della creazione[8].
Per questo, la cristologia cosmica del NT afferma la verità di fede della creazione in Cristo, il quale

è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra… Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono» (Col 1,15-17; cf. 1Cor 8,6; Gv 1,3).

Elemento importantissimo che la teologia cristiana non sempre ha valorizzato adeguatamente è il riconoscimento della centralità di Cristo a partire già dalla creazione[9]: mentre crea il mondo, Dio «pensa già» a Cristo. In certo qual modo, il mondo – e in esso l’uomo come suo apice e coronamento – è la grammatica dell’autoespressione di Dio, libera e gratuita, che si dice compiutamente e si rivela pienamente nel Figlio che si fa carne, entrando nella dimensione della nostra umanità fragile e mortale. E questo avviene nella «pienezza dei tempi» (Gal 4,4; cf. anche Eb 9,26), a indicare la densità massima del tempo nel quale fa irruzione l’Eterno, la qualità propria di quell’evento unico e irripetibile in cui si compie e si riempie di significato l’intero fluire del tempo dell’uomo; rivelandolo come un καιρός di salvezza, nel quale ci è offerta non solo la scialuppa di salvataggio dal naufragio nello scorrere impetuoso e inarrestabile del tempo, ma anche la rotta sicura per giungere al porto della Patria eterna. Poiché in Gal 4,4 la «pienezza dei tempi» (τὸ πλήρωμα τοῦ χρόνου) è associata all’invio del Figlio nel mondo, «nato da donna, nato sotto la legge», possiamo affermare che nell’intero snodarsi della vicenda umana/filiale di Gesù di Nazaret l’Eterno assume il tempo, affinché percorrendolo possa farlo giungere a maturazione: «per il governo della pienezza dei tempi» (εἰς οἰκονομίαν τοῦ πληρώματος τῶν καιρῶν: Ef 1,10). In questo senso,

la pienezza del tempo non può giungere in un istante, ma soltanto nel corso di un’intera vita. Si tratta del modo pieno nel quale Cristo visse il tempo, sintonizzandolo con l’eternità del Dio vivente[10].

E lo fece concretamente nel proprio corpo (cf. Eb 10,5-7), «mosso dallo Spirito eterno» (Eb 9,14), plasmando nel tempo la propria libertà in obbedienza filiale e abbandono amorevole al Padre «che poteva salvarlo da morte» (Eb 5,7).
Comprendiamo così che il farsi carne – nel tempo – del Verbo eterno rappresenta la massima espressione dell’amore di Dio: un amore capace non solo di porre e mantenere in essere l’altro da sé e quindi di rivelarsi nel mondo, ma capace addirittura di farsi egli stesso «parte» del mondo e della storia, in una vera, integra e dinamica esistenza umana, per ammettere l’uomo alla comunione con sé.
Eccoci allora al tornante decisivo del nostro discorso: perché l’Eterno entra nel tempo, il tempo può entrare nell’eternità, anche se non vi è ancora entrato pienamente. Più precisamente: perché il Verbo eterno di Dio si è fatto carne – assumendo la nostra reale umanità dispiegata in una temporalità fragile e caduca – l’uomo può partecipare all’eternità di Dio, che si chiama «vita eterna» per chi crede e ama (S. Giovanni), e si connota quale «filiazione adottiva» grazie all’azione dello Spirito (S. Paolo).

3. Il tempo nell’eternità: risurrezione di e in Cristo

Se l’intera vicenda di Gesù di Nazaret costituisce «la pienezza del tempo», la rilettura neotestamentaria evidenzia come assolutamente centrale l’evento pasquale, il quale attesta la risurrezione di Cristo nel suo vero corpo. Il passaggio verso l’eternità ci è aperto infatti dalla sua vittoria sulla morte, limite costitutivo e invalicabile della nostra temporalità finita, entro cui però egli ci ha aperto un varco, accessibile mediante l’esercizio dell’ἀγάπη (l’unica realtà che «non avrà mai fine»: 1Cor 13,8), cioè mediante un amore fattivo che sa credere e che osa sperare (cf. 1Cor 13,13).
Anzitutto, occorre insistere sul fatto che ciò è possibile precisamente e soltanto in virtù della Pasqua di Gesù, del suo passaggio da questo mondo al Padre attraverso la morte e la risurrezione, che conferisce anche al nostro passaggio le condizioni e i connotati propri e specifici. Ora, la risurrezione di Cristo ha toccato realmente la nostra storia, pur trascendendone i limiti costitutivi, quale «evento in sé metastorico»[11]. Da un lato, occorre riconoscere che è successo qualche cosa di reale e definitivo a Gesù di Nazaret, alla sua persona; qui trova fondamento la certezza della fede dei testimoni, ai quali propriamente il Crocifisso Risorto «si fece vedere»[12]. D’altro lato, il carattere proprio dell’evento è evidenziato dalla notazione temporale «il terzo giorno», che non è puramente cronologica, ma che indica una pienezza, la qualità escatologica di quell’evento (cf. 1Cor 15,4; At 10,40; Lc 9,22; 24,46). La risurrezione rappresenta così un compimento definitivo, proprio perché riguarda la pienezza di vita di Dio. È cioè in essa che il tempo trova il suo compimento, senza tuttavia che la storia successiva venga estenuata; anzi, la risurrezione in qualità di

evento escatologico si propone come la condizione di possibilità del tempo, e in esso trova fondamento la sua articolazione in presente, passato e futuro[13].

In secondo luogo, proprio in quanto la risurrezione ha innescato nella storia un processo irreversibile che riguarda tutti gli uomini e tutto il creato («Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti»: 1Cor 15,20), mentre illumina il ruolo di Cristo nella creazione[14], fa risplendere la vocazione filiale inscritta da sempre nel cuore dell’uomo, come evidenzia l’inno cristologico di Efesini:

In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato (Ef 1,4-6).

L’espressione «scelti prima» non indica tanto una precedenza temporale rispetto alla «creazione del mondo» (san Paolo non contraddice san Agostino!), quanto piuttosto la qualità dell’azione divina, secondo la linea interpretativa che vedevamo sopra: «in principio». Si tratta cioè della gratuità originaria di Dio, non condizionata da vicende contingenti: «prima» ancora di ogni scelta e possibilità umana, per puro atto di grazia, inscritto da sempre nel pensiero di Dio; «prima» che non solo l’uomo, ma l’universo stesso fosse chiamato all’esistenza. La scelta di Dio, la sua volontà di amore, è ciò che sorregge e sostanzia ogni tempo, l’intera estensione temporale dell’universo creato; in particolare, l’elezione dell’uomo quale apice dell’intera creazione e l’esercizio della sua libertà situata. Con una metafora approssimativa – poiché ci muoviamo sempre inevitabilmente a partire dalla nostra dimensione di temporalità – potremmo pensare il rapporto di Dio con ciascuno di noi non solo come un architetto che progetta la casa prima di costruirla (il progetto precede cronologicamente e dà avvio alla realizzazione dell’edificio, che a quello via via si conforma), ma molto più come un uomo e una donna che si amano prima di sposarsi (l’amore non è solo la motivazione originaria, ma è il fondamento permanente della scelta matrimoniale, che ha bisogno poi di esprimersi e concretizzarsi in un’intera esistenza di dono, comunione, apertura alla vita; e soltanto così diventa realmente indissolubile, cioè «per sempre»); forse ancor meglio, come due sposi che amano il proprio figlio prima di metterlo al mondo (il figlio è lo sbocciare del loro amore, che non solo ne precede la nascita, ma che ne accompagnerà e sostanzierà poi la crescita e la maturazione, identificandolo «per sempre» come loro figlio). Analogamente, quando affermiamo che Dio ci ama prima di crearci, dovremmo intendere che il suo amore non solo precede ogni nostra azione e ogni nostro merito, ma che è e rimane fondamento stabile e permanente, indissolubile/eterno, della nostra esistenza dispiegata nel tempo, sostenendo e qualificando la nostra stessa possibilità di riconoscerlo, di accoglierlo e di corrispondervi con amore filiale/fraterno.
In definitiva, siamo predestinati non perché vi sarebbe un destino già scritto cui semplicemente conformarsi e che ci priverebbe di una effettiva libertà, ma nel senso che il nostro essere creaturale si radica nell’eternità stessa di Dio, sul fondamento della sua scelta libera e gratuita. Non solo, ma occorre precisare che prototipo di tutto è il Figlio, nel quale e mediante il quale siamo stati «scelti, predestinati, gratificati»; portiamo infatti inscritta una vocazione precisa e altissima, l’«adozione filiale», come specifica l’inno di Efesini mediante il termine «υἱοθεσία», esclusivo di Paolo (cf. Rm 8,15.23; 9,4; Gal 4,5). In quanto creati a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1,26-27), la nostra vocazione è quella di essere ammessi alla comunione di vita con lui: non si tratta di una partecipazione generica alla sua natura, ma della chiamata a entrare in qualità di figli nel dinamismo stesso dell’amore trinitario; più precisamente, chiamati a essere figli per adozione (cioè non per natura, ma per libera elezione; non per merito nostro, ma per pura grazia), partecipando della qualità stessa dell’amore che da sempre unisce e distingue il Padre e il Figlio, nel vincolo dello Spirito. È infatti grazie allo Spirito che è stato riversato nei nostri cuori in virtù della risurrezione di Cristo – ricorda ancora san Paolo (cf. Gal 4,6; Rm 8,15) – che noi possiamo rivolgerci a Dio chiamandolo «Abbà», come il Figlio Gesù[15].

4. Incontrarsi… alla fine: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del secolo futuro»[16]

Da quanto detto, consegue che possiamo provare a dire qualcosa delle realtà escatologiche soltanto perché esse hanno già fatto irruzione nella nostra storia, in maniera reale, anche se ancora germinale, con la risurrezione di Gesù Cristo dai morti. È da Gesù crocifisso e risorto che dobbiamo sempre partire per provare a dire qualcosa della nostra sorte futura, della possibilità di superare il limite costitutivo della nostra temporalità e mortalità, per avere accesso alla pienezza della vita di Dio.
In conclusione, richiamiamo sinteticamente alcuni elementi, alla luce di un’alleanza possibile e feconda tra tempo ed eternità, a partire da Colui che ne è l’unico «mediatore» (cf. 1Tm 2,5) e «il testimone fedele» (cf. Ap 1,5): Gesù Cristo, che con la sua obbedienza filiale al Padre plasmata dallo Spirito e vissuta fino al dono supremo della vita, nell’abbandono alla volontà dell’abbà e nel perdono rivolto agli uomini peccatori, ha vinto con l’amore il potere della morte, rendendo accessibile a noi, membra del suo corpo risorto (cf. 1Cor 12,27; Rm 12,5; Ef 5,30), il passaggio verso l’eternità.
Anzitutto, affermare un’alleanza fra tempo ed eternità significa riconoscere un rapporto positivo tra Dio e uomo, una relazione di comunione che viviamo oggi nell’attesa e che sfocerà alla fine nell’incontro. Prima di tutto sarà un incontro con Gesù Cristo, in una vita profondamente rinnovata, immersi nella comunione piena d’amore con il Padre in qualità di «figli di adozione». Si vedano a tal proposito le numerose ricorrenze neotestamentarie del vivere in/con Cristo, risorgere nel Signore, stare sempre con lui; Paolo, in particolare, ci ricorda che «saremo – al plurale! – sempre con il Signore» (1Ts 4,17). Di conseguenza, sarà anche un incontro tra di noi: nella misura in cui ci avviciniamo a lui, si attua una comunione nuova, più stretta tra di noi. La verità di fede della «comunione dei santi»[17] evidenzia il tessuto relazionale della nostra esistenza umana che non verrà meno, ma che sarà pienamente e definitivamente radicata nell’amore di Dio: destinati a lui, perché creati in lui; fratelli tra di noi, perché tutti figli suoi. Si pensi qui alla densità del linguaggio dell’ἀγάπη: sia in Paolo, il quale ricorda che quanto viene seminato nell’amore non verrà mai meno («la carità non avrà mai fine»: 1Cor 13,8), sia in Giovanni, il quale, dopo aver attestato che «Dio è amore» (1Gv 4,8.16), precisa che noi «abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi» (1Gv 3,16), mentre la prova che egli rimane in noi l’abbiamo «dallo Spirito che ci ha dato» (1Gv 3,24; cf. 4,13).
Tutto questo viene espresso biblicamente molto bene con la locuzione «vita eterna» (ζωὴ αἰώνιον)[18], che indica non solo la condizione futura di risurrezione promessa ai credenti, ma anche la qualità propria che connota fin d’ora la nuova dimensione di vita che s’impossessa di noi nella misura in cui

crediamo in Gesù Cristo, poiché chi crede vivrà «in eterno» (Gv 6,51.58; cf. 4,14), non vedrà la morte «in eterno» (8,51.52; cf. 10,28), «ha la vita eterna» perché «è passato dalla morte alla vita» (5,24; cf. 11,26);

viviamo nell’amore, poiché «noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli», mentre è «chi non ama» che «rimane nella morte» (1Gv 3,14);

siamo sostenuti dalla speranza, se non ci lasciamo trascinare passivamente dal fluire del tempo, ma esercitiamo attivamente una sorta di «spinta archimedea» verso l’alto, che riceviamo proprio in virtù e nella misura della nostra immersione nella temporalità.

Se pertanto con la risurrezione di Gesù si è consolidata l’alleanza tra tempo ed eternità, non risulta con ciò svuotato di senso e di valore il frattempo che stiamo vivendo, la responsabilità di fronte al presente, la durata della nostra storia, che si svolge dinamicamente nell’attesa (è il nostro modo proprio di vivere nel/il tempo, protesi tra «già» e «non ancora») della sua venuta (la parusia, cioè la sua presenza come giudice e salvatore insieme, finalmente dispiegata in tutta la sua pienezza, il suo oggi eterno che non succede a uno ieri e non previene un ulteriore domani): sorretti dalla fede, sospinti dalla speranza, nutriti dall’amore.



[1] «Aeternitas non est aliud quam ipse Deus»: S. Tommaso D’Aquino, STh I, q. 10, a. 2, ad 3.

[2] Per un primo orientamento, rimandiamo a un convegno tenutosi a Torino nel 1999 sul tema Tempo ed eternità: cf. «Annuario filosofico» 17 (2001) 73-205; cf. pure il contributo sintetico di G. Pasquale, Tempo ed eternità. Ciò che può sillabare la filosofia, in «CredereOggi» 29 (5/2009) 55-73. Per un approccio più specificamente biblico-teologico, cf. A. Casalegno (ed.), Tempo ed eternità. In dialogo con Ugo Vanni, San Paolo, Cinisello B. 2002.

[3] Per quanto riguarda invece la novità della concezione biblica rispetto al mondo greco (e ancora più rispetto alle religioni orientali), una lettura più attenta suggerisce di non enfatizzare una rigida contrapposizione fra tempo lineare e tempo ciclico: cf. G.L. Prato, Il tempo e la storia nella Bibbia, in L. Bertazzo (ed.), Il tempo e i tempi della fede, EMP, Padova 1999, 98-101; come pure le osservazioni sintetiche riassuntive di L. Sartori, Riflessioni conclusive, in ibid., 172. Certamente, la visione cristiana propone una concezione aperta – che potremmo definire forse meglio a spirale – del tempo, proteso verso il compimento escatologico, dove ogni uomo è unico e irripetibile, libero e responsabile; e il male è reale, la sua presenza è drammatica, ma il suo potere non è assoluto, ha un tempo limitato.

[4] S. Tommaso d’Aquino, STh I, q. 10, a. 2 ad 4.

[5] Cf. a tal proposito, nella prospettiva di un’antropologia «teologica», «etica» e «sacramentale», il saggio di B. Forte, L’eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale, San Paolo, Cinisello B. 1993.

[6] Mentre tutto ciò che noi vediamo passa, scorre e muta continuamente, e i nostri anni saranno tutti quando non saranno più, «tu invece sei sempre il medesimo, e i tuoi anni non finiscono mai […] I tuoi anni sono un giorno solo, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non è successo all’ieri. Il tuo oggi è l’eternità» (S. Agostino, Conf. XI,13).

[7] «Processiones personarum sunt rationes productionis creaturarum»: S. Tommaso d’Aquino, STh I, q. 45, a. 6, co.; cf. ibid., q. 45, a. 7, ad 3. Cf. A. Ghisalberti, Circolarità di tempo ed eternità in Agostino e Tommaso d’Aquino, in «Annuario filosofico» 17 (2001) 83-93. Sulla necessità di una fondazione metafisica del concetto di tempo, senza prescindere ma anzi a partire dalla prospettiva biblica, cf. Pasquale, Tempo ed eternità, 57-60.

[8] «La bontà creatrice del Padre, che egli dimostra concedendo l’esistenza alle sue creature e mantenendole nell’esistenza, non è diversa dall’amore con il quale egli ama eternamente il Figlio, che resta l’oggetto primario del suo amore e nel quale appunto ama tutte le creature»: C. Greco, Tempo ed eternità nell’ottica della teologia trinitaria, in Casalegno (ed.), Tempo ed eternità, 296. Cf. anche B. Forte, Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio e il compimento, San Paolo, Cinisello B. 1991, 226-245.

[9] Basti pensare all’estrinsecismo tra approccio filosofico razionale e biblico-teologico nelle due parti del trattato neoscolastico De Deo creante et elevante: cf. F.G. Brambilla, Antropologia teologica. Chi è l’uomo perché te ne curi?, Queriniana, Brescia 2005, 85-101.

[10] J. Granados García, Teologia del tempo. Saggio sulla memoria, la promessa e la fecondità, EDB, Bologna 2014, 64.

[11] Cf. M. Bordoni, Gesù di Nazaret presenza, memoria, attesa, Queriniana, Brescia 19953, 216-232, qui p. 219.

[12] Cf. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, I. Gli inizi, San Paolo, Cinisello B. 1996, 187-188, n. 44.

[13] G. Bof, Il senso teologico del tempo e la sua scansione, in Bertazzo (ed.), Il tempo, 144. Nella prospettiva escatologica cristiana, che vede «la storia come luogo dello Spirito […] la presenza di Dio, nelle sue molteplici figure, non può essere pensata in categorie storiche oggettive, neutrali, inglobanti, ma solo teologiche, cristologiche e pneumatologiche: indice di un’irriducibile “emergenza” – l’Alterità di Dio e in Dio – che legittima il continuo gioco tra “presenza” e “imminenza” di Dio, la quale rende il tempo dell’uomo kairòs»: ibid., 143.

[14] È precisamente la fede pasquale nel Crocifisso risorto che ha aperto alla riflessione cristiana primitiva la prospettiva della creazione in Cristo veicolata dalla cristologia cosmica degli inni pre-paolini: «Il compimento ha illuminato di luce nuova l’inizio; la pienezza escatologica ha rivelato le profondità dell’atto creatore; l’escatologia ha offerto la chiave di comprensione della protologia»: Forte, Teologia della storia, 227.

[15] La predestinazione in Cristo dice, pertanto, la sovrana libertà e la gratuità dell’amore di Dio Padre, che, mentre sceglie di comunicarsi agli uomini nel tempo, li chiama a partecipare alla piena comunione di vita con sé, nell’eternità: figli nel Figlio, in virtù dello Spirito d’amore. Non si tratta quindi di un determinismo fatalistico a essere salvati o eternamente dannati; non vi sono due possibili sbocchi per quanto riguarda la nostra sorte eterna, ma uno solo: la comunione con Dio; l’altro può essere soltanto il fallimento, per resistenza nostra, dell’unico progetto di amore di Dio in Cristo.

[16] Simbolo niceno-costantinopolitano, in DH 150.

[17] Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen gentium (21 novembre 1964), nn. 48-51 sottolinea bene il fatto che siamo una sola chiesa, un unico corpo. Nessuno può essere compiutamente beato da solo; invece, il cammino di ogni singola persona, anche dopo la morte, rimane in comunione con il cammino dell’intero corpo della chiesa.

[18] Cf. A. Casalegno, Tempo e momento escatologico nel vangelo di Giovanni, in Id. (ed.), Tempo ed eternità, 176-177; Forte, L’eternità nel tempo, 307-311.

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