Incontrarsi alla fine. Tempo ed eternità |
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Gilberto Depeder |
La teologia, quale riflessione sull’esperienza e sul dato di fede, ha il diritto e il dovere di intervenire, in dialogo con le altre scienze, quando si riflette su di una realtà – quella del tempo e del suo rapporto con l’eternità – che affonda le radici in profondità nello spirito dell’uomo, interrogando la sua consapevolezza di essere situato nel mondo, senza peraltro risolversi ed esaurirsi entro coordinate puramente spazio-temporali. 1. Tempo ed eternità: un’alleanza possibile e feconda Dopo che la scienza ha evidenziato il legame indissolubile del tempo non solo con lo spazio, ma anche con l’energia e la materia, a maggior ragione oggi non riusciamo a pensare che l’eternità equivalga a un protrarsi infinito del tempo, né tanto meno al ripetersi continuo di un tempo ciclico nell’eterno ritorno dell’uguale, come poteva essere ad es. nell’orfismo[3]. L’eternità si troverebbe così dissolta nel tempo, reso a sua volta infinito; fino ad arrivare all’assurdo di negare il male, o – peggio – a giustificarlo. In ogni caso, si profilerebbe la rassegnazione al non senso, al dominio dell’irrazionale. 2. L’eternità nel tempo: creazione in Cristo «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Il rapporto tra tempo ed eternità appare evidente nella creazione, che non avviene di per sé prima di ogni altra cosa, ma più precisamente «in principio» (cf. Gen 1,1). L’espressione non identifica tanto l’inizio cronologico dell’universo, l’istante del big bang; su di un altro piano rispetto a quello fisico-cosmologico, intende affermare piuttosto che Dio è al fondamento, a capo di ogni cosa, come causa ultima di tutto ciò che esiste, e che mantiene una relazione permanente e positiva con la sua creazione. Nessuna spiegazione scientifica delle origini del mondo potrà allora negare l’esistenza di Dio; come d’altro canto il racconto genesiaco non toglie affatto plausibilità alla prospettiva di un universo in evoluzione. è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra… Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono» (Col 1,15-17; cf. 1Cor 8,6; Gv 1,3). Elemento importantissimo che la teologia cristiana non sempre ha valorizzato adeguatamente è il riconoscimento della centralità di Cristo a partire già dalla creazione[9]: mentre crea il mondo, Dio «pensa già» a Cristo. In certo qual modo, il mondo – e in esso l’uomo come suo apice e coronamento – è la grammatica dell’autoespressione di Dio, libera e gratuita, che si dice compiutamente e si rivela pienamente nel Figlio che si fa carne, entrando nella dimensione della nostra umanità fragile e mortale. E questo avviene nella «pienezza dei tempi» (Gal 4,4; cf. anche Eb 9,26), a indicare la densità massima del tempo nel quale fa irruzione l’Eterno, la qualità propria di quell’evento unico e irripetibile in cui si compie e si riempie di significato l’intero fluire del tempo dell’uomo; rivelandolo come un καιρός di salvezza, nel quale ci è offerta non solo la scialuppa di salvataggio dal naufragio nello scorrere impetuoso e inarrestabile del tempo, ma anche la rotta sicura per giungere al porto della Patria eterna. Poiché in Gal 4,4 la «pienezza dei tempi» (τὸ πλήρωμα τοῦ χρόνου) è associata all’invio del Figlio nel mondo, «nato da donna, nato sotto la legge», possiamo affermare che nell’intero snodarsi della vicenda umana/filiale di Gesù di Nazaret l’Eterno assume il tempo, affinché percorrendolo possa farlo giungere a maturazione: «per il governo della pienezza dei tempi» (εἰς οἰκονομίαν τοῦ πληρώματος τῶν καιρῶν: Ef 1,10). In questo senso, la pienezza del tempo non può giungere in un istante, ma soltanto nel corso di un’intera vita. Si tratta del modo pieno nel quale Cristo visse il tempo, sintonizzandolo con l’eternità del Dio vivente[10]. E lo fece concretamente nel proprio corpo (cf. Eb 10,5-7), «mosso dallo Spirito eterno» (Eb 9,14), plasmando nel tempo la propria libertà in obbedienza filiale e abbandono amorevole al Padre «che poteva salvarlo da morte» (Eb 5,7). 3. Il tempo nell’eternità: risurrezione di e in Cristo Se l’intera vicenda di Gesù di Nazaret costituisce «la pienezza del tempo», la rilettura neotestamentaria evidenzia come assolutamente centrale l’evento pasquale, il quale attesta la risurrezione di Cristo nel suo vero corpo. Il passaggio verso l’eternità ci è aperto infatti dalla sua vittoria sulla morte, limite costitutivo e invalicabile della nostra temporalità finita, entro cui però egli ci ha aperto un varco, accessibile mediante l’esercizio dell’ἀγάπη (l’unica realtà che «non avrà mai fine»: 1Cor 13,8), cioè mediante un amore fattivo che sa credere e che osa sperare (cf. 1Cor 13,13). evento escatologico si propone come la condizione di possibilità del tempo, e in esso trova fondamento la sua articolazione in presente, passato e futuro[13]. In secondo luogo, proprio in quanto la risurrezione ha innescato nella storia un processo irreversibile che riguarda tutti gli uomini e tutto il creato («Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti»: 1Cor 15,20), mentre illumina il ruolo di Cristo nella creazione[14], fa risplendere la vocazione filiale inscritta da sempre nel cuore dell’uomo, come evidenzia l’inno cristologico di Efesini: In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato (Ef 1,4-6). L’espressione «scelti prima» non indica tanto una precedenza temporale rispetto alla «creazione del mondo» (san Paolo non contraddice san Agostino!), quanto piuttosto la qualità dell’azione divina, secondo la linea interpretativa che vedevamo sopra: «in principio». Si tratta cioè della gratuità originaria di Dio, non condizionata da vicende contingenti: «prima» ancora di ogni scelta e possibilità umana, per puro atto di grazia, inscritto da sempre nel pensiero di Dio; «prima» che non solo l’uomo, ma l’universo stesso fosse chiamato all’esistenza. La scelta di Dio, la sua volontà di amore, è ciò che sorregge e sostanzia ogni tempo, l’intera estensione temporale dell’universo creato; in particolare, l’elezione dell’uomo quale apice dell’intera creazione e l’esercizio della sua libertà situata. Con una metafora approssimativa – poiché ci muoviamo sempre inevitabilmente a partire dalla nostra dimensione di temporalità – potremmo pensare il rapporto di Dio con ciascuno di noi non solo come un architetto che progetta la casa prima di costruirla (il progetto precede cronologicamente e dà avvio alla realizzazione dell’edificio, che a quello via via si conforma), ma molto più come un uomo e una donna che si amano prima di sposarsi (l’amore non è solo la motivazione originaria, ma è il fondamento permanente della scelta matrimoniale, che ha bisogno poi di esprimersi e concretizzarsi in un’intera esistenza di dono, comunione, apertura alla vita; e soltanto così diventa realmente indissolubile, cioè «per sempre»); forse ancor meglio, come due sposi che amano il proprio figlio prima di metterlo al mondo (il figlio è lo sbocciare del loro amore, che non solo ne precede la nascita, ma che ne accompagnerà e sostanzierà poi la crescita e la maturazione, identificandolo «per sempre» come loro figlio). Analogamente, quando affermiamo che Dio ci ama prima di crearci, dovremmo intendere che il suo amore non solo precede ogni nostra azione e ogni nostro merito, ma che è e rimane fondamento stabile e permanente, indissolubile/eterno, della nostra esistenza dispiegata nel tempo, sostenendo e qualificando la nostra stessa possibilità di riconoscerlo, di accoglierlo e di corrispondervi con amore filiale/fraterno. 4. Incontrarsi… alla fine: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del secolo futuro»[16] Da quanto detto, consegue che possiamo provare a dire qualcosa delle realtà escatologiche soltanto perché esse hanno già fatto irruzione nella nostra storia, in maniera reale, anche se ancora germinale, con la risurrezione di Gesù Cristo dai morti. È da Gesù crocifisso e risorto che dobbiamo sempre partire per provare a dire qualcosa della nostra sorte futura, della possibilità di superare il limite costitutivo della nostra temporalità e mortalità, per avere accesso alla pienezza della vita di Dio. – crediamo in Gesù Cristo, poiché chi crede vivrà «in eterno» (Gv 6,51.58; cf. 4,14), non vedrà la morte «in eterno» (8,51.52; cf. 10,28), «ha la vita eterna» perché «è passato dalla morte alla vita» (5,24; cf. 11,26); – viviamo nell’amore, poiché «noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli», mentre è «chi non ama» che «rimane nella morte» (1Gv 3,14); – siamo sostenuti dalla speranza, se non ci lasciamo trascinare passivamente dal fluire del tempo, ma esercitiamo attivamente una sorta di «spinta archimedea» verso l’alto, che riceviamo proprio in virtù e nella misura della nostra immersione nella temporalità. Se pertanto con la risurrezione di Gesù si è consolidata l’alleanza tra tempo ed eternità, non risulta con ciò svuotato di senso e di valore il frattempo che stiamo vivendo, la responsabilità di fronte al presente, la durata della nostra storia, che si svolge dinamicamente nell’attesa (è il nostro modo proprio di vivere nel/il tempo, protesi tra «già» e «non ancora») della sua venuta (la parusia, cioè la sua presenza come giudice e salvatore insieme, finalmente dispiegata in tutta la sua pienezza, il suo oggi eterno che non succede a uno ieri e non previene un ulteriore domani): sorretti dalla fede, sospinti dalla speranza, nutriti dall’amore. [1] «Aeternitas non est aliud quam ipse Deus»: S. Tommaso D’Aquino, STh I, q. 10, a. 2, ad 3.
[2] Per un primo orientamento, rimandiamo a un convegno tenutosi a Torino nel 1999 sul tema Tempo ed eternità: cf. «Annuario filosofico» 17 (2001) 73-205; cf. pure il contributo sintetico di G. Pasquale, Tempo ed eternità. Ciò che può sillabare la filosofia, in «CredereOggi» 29 (5/2009) 55-73. Per un approccio più specificamente biblico-teologico, cf. A. Casalegno (ed.), Tempo ed eternità. In dialogo con Ugo Vanni, San Paolo, Cinisello B. 2002. [3] Per quanto riguarda invece la novità della concezione biblica rispetto al mondo greco (e ancora più rispetto alle religioni orientali), una lettura più attenta suggerisce di non enfatizzare una rigida contrapposizione fra tempo lineare e tempo ciclico: cf. G.L. Prato, Il tempo e la storia nella Bibbia, in L. Bertazzo (ed.), Il tempo e i tempi della fede, EMP, Padova 1999, 98-101; come pure le osservazioni sintetiche riassuntive di L. Sartori, Riflessioni conclusive, in ibid., 172. Certamente, la visione cristiana propone una concezione aperta – che potremmo definire forse meglio a spirale – del tempo, proteso verso il compimento escatologico, dove ogni uomo è unico e irripetibile, libero e responsabile; e il male è reale, la sua presenza è drammatica, ma il suo potere non è assoluto, ha un tempo limitato. [4] S. Tommaso d’Aquino, STh I, q. 10, a. 2 ad 4. [5] Cf. a tal proposito, nella prospettiva di un’antropologia «teologica», «etica» e «sacramentale», il saggio di B. Forte, L’eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale, San Paolo, Cinisello B. 1993. [6] Mentre tutto ciò che noi vediamo passa, scorre e muta continuamente, e i nostri anni saranno tutti quando non saranno più, «tu invece sei sempre il medesimo, e i tuoi anni non finiscono mai […] I tuoi anni sono un giorno solo, e il tuo giorno non è ogni giorno, ma oggi, perché il tuo oggi non cede al domani, come non è successo all’ieri. Il tuo oggi è l’eternità» (S. Agostino, Conf. XI,13). [7] «Processiones personarum sunt rationes productionis creaturarum»: S. Tommaso d’Aquino, STh I, q. 45, a. 6, co.; cf. ibid., q. 45, a. 7, ad 3. Cf. A. Ghisalberti, Circolarità di tempo ed eternità in Agostino e Tommaso d’Aquino, in «Annuario filosofico» 17 (2001) 83-93. Sulla necessità di una fondazione metafisica del concetto di tempo, senza prescindere ma anzi a partire dalla prospettiva biblica, cf. Pasquale, Tempo ed eternità, 57-60. [8] «La bontà creatrice del Padre, che egli dimostra concedendo l’esistenza alle sue creature e mantenendole nell’esistenza, non è diversa dall’amore con il quale egli ama eternamente il Figlio, che resta l’oggetto primario del suo amore e nel quale appunto ama tutte le creature»: C. Greco, Tempo ed eternità nell’ottica della teologia trinitaria, in Casalegno (ed.), Tempo ed eternità, 296. Cf. anche B. Forte, Teologia della storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio e il compimento, San Paolo, Cinisello B. 1991, 226-245. [9] Basti pensare all’estrinsecismo tra approccio filosofico razionale e biblico-teologico nelle due parti del trattato neoscolastico De Deo creante et elevante: cf. F.G. Brambilla, Antropologia teologica. Chi è l’uomo perché te ne curi?, Queriniana, Brescia 2005, 85-101. [10] J. Granados García, Teologia del tempo. Saggio sulla memoria, la promessa e la fecondità, EDB, Bologna 2014, 64. [11] Cf. M. Bordoni, Gesù di Nazaret presenza, memoria, attesa, Queriniana, Brescia 19953, 216-232, qui p. 219. [12] Cf. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, I. Gli inizi, San Paolo, Cinisello B. 1996, 187-188, n. 44. [13] G. Bof, Il senso teologico del tempo e la sua scansione, in Bertazzo (ed.), Il tempo, 144. Nella prospettiva escatologica cristiana, che vede «la storia come luogo dello Spirito […] la presenza di Dio, nelle sue molteplici figure, non può essere pensata in categorie storiche oggettive, neutrali, inglobanti, ma solo teologiche, cristologiche e pneumatologiche: indice di un’irriducibile “emergenza” – l’Alterità di Dio e in Dio – che legittima il continuo gioco tra “presenza” e “imminenza” di Dio, la quale rende il tempo dell’uomo kairòs»: ibid., 143. [14] È precisamente la fede pasquale nel Crocifisso risorto che ha aperto alla riflessione cristiana primitiva la prospettiva della creazione in Cristo veicolata dalla cristologia cosmica degli inni pre-paolini: «Il compimento ha illuminato di luce nuova l’inizio; la pienezza escatologica ha rivelato le profondità dell’atto creatore; l’escatologia ha offerto la chiave di comprensione della protologia»: Forte, Teologia della storia, 227. [15] La predestinazione in Cristo dice, pertanto, la sovrana libertà e la gratuità dell’amore di Dio Padre, che, mentre sceglie di comunicarsi agli uomini nel tempo, li chiama a partecipare alla piena comunione di vita con sé, nell’eternità: figli nel Figlio, in virtù dello Spirito d’amore. Non si tratta quindi di un determinismo fatalistico a essere salvati o eternamente dannati; non vi sono due possibili sbocchi per quanto riguarda la nostra sorte eterna, ma uno solo: la comunione con Dio; l’altro può essere soltanto il fallimento, per resistenza nostra, dell’unico progetto di amore di Dio in Cristo. [16] Simbolo niceno-costantinopolitano, in DH 150. [17] Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen gentium (21 novembre 1964), nn. 48-51 sottolinea bene il fatto che siamo una sola chiesa, un unico corpo. Nessuno può essere compiutamente beato da solo; invece, il cammino di ogni singola persona, anche dopo la morte, rimane in comunione con il cammino dell’intero corpo della chiesa. [18] Cf. A. Casalegno, Tempo e momento escatologico nel vangelo di Giovanni, in Id. (ed.), Tempo ed eternità, 176-177; Forte, L’eternità nel tempo, 307-311. |