Vittorio Messori intervistò Umberto Eco nel 1982 per le pagine del mensile Jesus. Con il grande studioso, che da giovane, fu dirigente nazionale di Azione Cattolica, parla del successo de Il nome della Rosa il celebre romanzo “teologico”: ogni verità si confonde con il suo opposto, la virtù equivale al vizio, Dio si dissolve nel Caos.

Umberto Eco nella sua abitazione (1982) in una foto scattata in occasione dell’intervista di Vittorio Messori

Spulcio dal taccuino fitto di note dopo qualche ora di colloquio: «Non credo più in Dio, ma forse Dio crede ancora in me. Dunque, manteniamo un certo rapporto». «Se trovi qualcuno che ama troppo gli altri, sappi che con ogni probabilità è un ateo». «Dio è laureato in filosofia più che in ingegneria». «La scommessa di Pascal va rovesciata: conviene scommettere sull’inesistenza, non sull’’esistenza di Dio».

«A proposito di Pascal, se abitasse sul mio pianerottolo ci saluteremmo ossequiosi ma ci frequenteremmo poco. Se ci fosse invece Tommaso d’Aquino, tutte le sere giocheremmo a briscola assieme ma finiremmo con l’andare per avvocati. E magari lui mi denuncerebbe alla Digos per cercare di incastrarmi». «Se fossi Dio e avessi un Figlio lo manderei a studiare all’università di Harvard e non a quella di Camerino». «Che la Chiesa sia cambiata me ne sono accorto quando i cappuccini di Alessandria mi hanno accolto in convento con mia moglie (donne in clausura!) e mi hanno chiesto che marca di whisky preferivo».

Anche questa volta, Umberto Eco non ha deluso il suo interlocutore: il “signore dei segni”, come lo chiamano, è il contrario del tetro, sussiegoso, spiritoso barone universitario standard.

Questo ex dirigente nazionale di Azione Cattolica, quest’uomo che sino all’università conobbe soltanto il chiuso cattolicesimo preconciliare (dove spesso, per usare una sua espressione, «la santità si accompagnava a una preoccupante mancanza di ormoni»), questo devoto da comunione quotidiana, che scelse san Tommaso per la sua tesi pensando alla fede da difendere e non a una cattedra da conquistare, da ormai un quarto di secolo sembra programmato e aggiornato continuamente da un computer secondo il modulo del perfetto collaboratore de L’Espresso. O, se volete, de L’Express, di Esquire, del New Yorker. O, magari, del nuovissimo FMR, il mensile di Franco Maria Ricci.

Intelligentissimo, coltissimo, furbissimo (nel senso ammirato del termine) sa a perfezione che l’eroe intellettuale radical dell’Occidente postindustriale deve occuparsi con estrema serietà del “frivolo”, dell’”effi-mero”. Dunque, ricco apparato critico e filologico applicato a fumetti, disco-music, juke-box, discipline universitarie un po’ stravaganti, mode culturali “emergenti” e comunque “nuove”. Il criterio di scelta deve infatti ispirarsi alle leggi della “crono latria”, come l’ultimo, un po’ incattivito Maritain chiamava il culto del “giovane”, del “nuovo”, dell’inedito. In tutto poi, la sterminata erudizione deve mascherarsi dietro una verve un po’ distratta, ironica: il vecchio surtout pas trop de zèle ammonisca e guidi, sì che il tono della commedia non scivoli mai nel dramma sempre inelegante. Magari nel dramma per eccellenza: il prendere troppo sul serio se stessi, il proprio mistero, le domande ultime, quelle che affiorano dentro nel buio solitario della notte, quando il cicaleccio del seminar, del dibattito è sospeso sino al mattino

 

Se poi quelle domande continuano a inquietare – se, come è il caso di Eco, si ha ben altra sensibilità, ben altro spessore umano di un Moravia, altro eroe di questa cultura ma afflitto da lugubre superficialità, occupato solo dalla sua senile monomania erotica – allora le si esorcizzi montando una gran macchina di parole per dire che quelle domande sono insignificanti, anzi, che forse non esistono proprio. Il che è avvenuto con II nome della rosa. Che è libro mirabile nel senso etimologico della parola. Consumatore smodato, quasi maniacale, quale sono, di libri e giornali, quello è il chilo di carta che salverei assieme a pochi altri, estraendolo dal container di roba stampata subita in questi ultimi tempi. Libro tanto più “velenoso” (sarà lo stesso autore a suggerirmi l’aggettivo) quanto più abile, colto, bello. Romanzo che rinnova il programma che fu già di Sartre («Di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare»), ma con diversa levità divertita della saggistica travestita da narrativa de La nausea o de II muro o de II diavolo e il buon Dio. L’eccellente riuscita de II nome della rosa è proprio nella felicità narrativa che permette anche alle casalinghe di arrivare alla fine divertendosi, appassionandosi alla trama, assorbendone gli umori maliziosi senza neppure accorgersene. In questo senso, perfetto strumento di “cultura di massa”.

La reazione dei critici “cattolici” ha stupito lo stesso Eco. «Se fossi ancora credente, sarei stato ben più severo, ben più intollerante», mi dice l’autore nella sua casa milanese di via Melzi d’Eril, sulla cui facciata campeggia una scritta, un reperto bellico (U.S., Uscita di Sicurezza, del rifugio antiaereo si intende) che richiama curiosamente il titolo famoso di Ignazio Silone. La delusione di Eco è giustificata: è successo infatti che quei cattolici che scambiano il dialogo con le dimissioni (o che forse non hanno sufficiente acribia o non vogliono crearsi nemici tra la cultura “che conta”) hanno osannato II nome della rosa; come è giusto vista la bravura dell’autore. Ma nel contempo non hanno spiegato al lettore disarmato che quelle pagine erano un’intenzionale – ed efficacissima – mina vagante lanciata dal semiologo-scrittore sulla strada, oggi già così impervia, del continuare a credere.

Per fortuna – anche a conforto di Eco, scontento per la polemica mancata – non tutti dormono anche nella vecchia Compagnia di Gesù. Ecco allora la Civiltà Cattolica uscire con una grossa bacchetta e picchiare a dovere sulle nocche dello scrittore. Già il titolo dell’articolo è esplicito: L’allegro nominalismo nichilistico di Umberto Eco. Le cinque, fitte pagine di padre Guido Sommavilla s.j. finiscono senza troppi complimenti: «…un altro lampante falso storico, tra i tanti di questo libro: tutto costruito a specchi deformanti in serie sistematica e tattica strisciante, a discredito e derisione (anche se fa poi ridere così poco) di tutti i valori della Chiesa, della religione, dell’etica, della civiltà e della vita». Un finale forse un po’ scomposto – almeno per i gusti di Eco e miei – ma al quale il padre giunge dopo un circostanziato j’accuse così riassumibile, alla buona: lo sforzo del libro sarebbe tutto teso a dimostrarci che non c’è nulla di vero né di serio, tranne la sua (di Eco) personale verità e la sua ironia; egli (Eco) vorrebbe convincerci che non c’è alcuna differenza tra Cristo e Giuda, tra santo e delinquente, mancando ogni termine sicuro di confronto. Qui Pilato ancora una volta ghignerebbe il suo quid est veritas? Anzi, scrive padre Sommavilla ritorcendo il boomerang: «Ma se la verità è che tutto è da ridere, è da ridere anche la teoria che afferma che tutto è da ridere, tutta da ridere è dunque anche l’idea centrale di questo libro. È dunque ridicolo sostenere che tutto è ridicolo».

L’accusato – cui ricordo il cahier, – fa la sola cosa che gli è consentita: ride. «Ho l’impressione che il buon padre abbia visto giusto», mi dice, «ha ben individuato la boccetta di veleno del libro, anche se poi ha forse pestato un po’ troppo il pedale. Dimenticando oltretutto di dire che tutto ciò che io metto in bocca a fra Guglielmo, il mio protagonista, non è che un collage di citazioni da quel grande pensatore francescano che fu Occam; e che il mondo della spiritualità medievale, nel libro, è vissuto (mi pare) molto dal di dentro e senza riderci su». Spiega: «L’assoluta onnipotenza di Dio: ecco la tesi centrale de II nome della rosa. Qui è, paradossalmente, la radice dell’ateismo: un Dio che può giungere sino a violare il principio di non-contraddizione, a far sì che ciò che è avvenuto non sia mai avvenuto, finisce coll’esplodere nel Caos, nel panteismo; nel nichilismo appunto. A differenza di Tommaso d’Aquino, Occam toglie a Dio ogni limite: con questo si dissolve non solo la scolastica, ma la possibilità stessa di un Dio conoscibile, razionale».

Va bene, va bene: i soliti giochi verbali da filosofo, privi di alcuna verifica; chi ci assicura che l’ipotesi su Dio dell’Occam secondo Eco sia più reale di quella del Tommaso secondo i tomisti? Veniamo al concreto, piuttosto: la scommessa per Dio e contro Dio nasce dal vissuto esistenziale, mai da un teorico argomentare. Di recente, Eco ha parlato della sua «meditata apostasia». Gli va dato atto che, a differenza di tanti ex cattolici non ha lasciato la Chiesa per rifugiarsi nella sagrestia di un’altra chiesa, quella del “Partito” con la maiuscola, il comunista. È rimasto un “cane sciolto” (anche questa è una sua autodefinizione), seppure sempre dentro gli steccati del neoilluminismo. «Illuminista sì ma, prego, illuminista bizantino», mi ricorda, «il semplice illuminista è uno che crede impossibile trovare una spiegazione globale del mondo. L’illuminista bizantino sarebbe d’accordo, ma sospetta sempre che magari non è plausibile neppure quello scetticismo. Che anche quella rete, quel labirinto (non una piramide!) che è l’universo dei segni in cui siamo immersi abbia una nascosta spiegazione».

Ma non gli sembra ormai patetico l’illuminismo con il suo dogma di base, l’inesistenza del peccato? Oggi, poi; quando c’è chi comincia a dire che l’ipotesi cristiana del peccato (a partire da quello “originale”) è la sola verità scientificamente dimostrabile, visto come sta andando la storia di ciascuno e dell’umanità. «È vero», ammette, «siamo tutti sbagliati, ça ne colle pas come dice un mio amico psicanalista francese: ma non so rispetto a che cosa. E poi sono convinto che alla fine, e anche qui non so come, ce la caveremo». Il che, gli osservo, è la tesi cristiana: il mondo, nel suo complesso, è già salvato, può finire male (inferno?) la storia personale di qualcuno ma non la globalità della storia, che va verso il suo compimento.

«Se vuole», mi concede. «Ripeto: credo che ce la caveremo, ma non so come. Nel ritorno del Cristo, nella Parusia io non credo». Ecco saltare fuori il nome decisivo. Come si arriva a una “meditata apostasia”, per quali motivi uno che accettava il Cristo – e con tanto fervore come il giovane Eco – decide poi di ritirare la sua speranza? Qui, il filosofo, il semiologo, lo scrittore, si lancia in complesse dimostrazioni che – con ogni rispetto e ammirazione per le agudezas – non sfuggono al sospetto di essere state elaborate post factum, per razionalizzare un rifiuto che ha l’aria di venire (come ogni sentimento vero) più dal cuore che dalla ragione. Due in sostanza gli argomenti di Eco. Primo: scegliendo di far nascere suo Figlio, nel bacino mediterraneo durante la Pax Romana, Dio avrebbe fatto una precisa scelta “etnocentrica”, a favore di una razza, di un popolo, di una cultura; avrebbe cioè valutato «il modello culturale occidentale come il migliore possibile». Facile obiettare che, se l’Incarnazione aveva da essere, in qualche posto doveva pure realizzarsi. E che è difficile considerare “occidentale” la cultura di Israele: è piuttosto sotto il suo impatto tipicamente orientale che l’Occidente si trasforma sino a identificarsi con categorie che (seppure in varia maniera ellenizzate), in realtà vengono dall’Oriente. Volendo continuare su questa strada, poi, un’occhiata all’atlante ci mostrerebbe Israele come il posto-cerniera per eccellenza tra i tre continenti decisivi per la storia umana: Asia, Europa, Africa.

Passiamo all’argomento due che è il vecchio tema del ritardo della Redenzione. Perché, si chiede Eco, se il male del mondo è così grave, il Liberatore arriva dopo tanti millenni di storia? Se tante generazioni sono nate e morte senza redenzione, «non vuoi forse dire che il peccato agli occhi di Dio non è poi così grave, che Gesù è colui che doveva redimere dalla varicella?». Anche qui, non sarebbe difficile rinviare a quell’altro argomento cristiano della “pedagogia” divina. Per la fede, il Messia non è un agente dei Nocs o dei Gis, il paracadutista di un commando che fa una repentina apparizione: entrare nella storia significa rispettarne anche i ritmi, assumerne la lunga pazienza.

Ma è chiaro che su questa strada il dibattito sarebbe presto bloccato, con scambio fittamente elegante di reciproci sofismi. Professor Eco, «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce». Dove sono le radici vere della “apostasia”, meditata o no che sia? Questo filosofo (che per fortuna non è un ideologo) è pronto a concedermi che qualunque “prova o “ragionamento” serve solo a convincersi di ciò di cui si è già convinti. «Perdere la fede», dice, «è l’interruzione di un circuito elettrico. È vero: l’aspetto razionale non basta a spiegare la mia storia; ma non basta neppure quello biografico. Altri che hanno avuto le mie vicende, la fede l’hanno conservata». Scoprendosi – a tratti – nella sua umanità mi parla della «tragicità della scommessa sull’inesistenza di Dio». «Chi punta in questo modo deve produrre molto più amore del credente, per giustificare la sua vita e la sua morte». La morte, appunto; il suo dramma, lo scrittore lo vive nella carne, da quando suo padre morì inaspettatamente: «Sono passati tanti anni da allora, ma ci penso sempre. Io non cerco, freudianamente, di vendicarmi di mio padre, ma di vendicarlo».

Eco, dov’è suo padre, dove sono gli altri morti, dove saremo noi? Che c’è dietro quelle porte bronzee? «C’è il caos», dice con voce sicura, almeno in apparenza. «Oppure c’è il deserto piatto».

La morte, gli ricordo, è la scommessa per eccellenza, aperta nella sua logica a due esiti possibili. E se avessero ragione coloro che dicono che sarà Gesù, che sarà il carpentiere di Nazareth a venirci incontro? «Guardi», mi dice, «se per caso Cristo-giudice c’è davvero e vuole imbastirmi un processo gli dico più o meno le cose che sto dicendo a lei: ho ragionato così e così e sono arrivato alla conclusione che non eri tu ad aspettarci. Credo che in questo modo potremmo giungere a patti ragionevoli. Se invece ragionevole non è, se è il Dio crudele e vendicativo che magari ha già deciso in anticipo il mio destino, allora non voglio avere niente a che fare con lui. Mi mandi pure all’inferno, dove almeno c’è gente per bene. Ma se un Dio c’è, è il Dio di San Tommaso e con questo si può ragionare. Abbiamo studiato sugli stessi libri».

Ben trovato, ma non è forse un po’ troppo – come dire – antropomorfo per essere convincente del tutto? Non è un proiettare nei cieli il “Vostro onore” del processo da telefilm o il «non sono d’accordo con il compagno che ha parlato prima» del dibattito al comitato di quartiere? Pur messo a forza dentro categorie aristoteliche, il Dio di Tommaso non ha perso del tutto il ricordo del Dio di Paolo ai Corinti: «Sta scritto infatti: distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove è mai il sottile ragionatore di questo mondo?».

Ma qui dobbiamo fermarci. Anche se — prima di congedarmi per andare a cena con il suo amico Luciano Berio, il musicista d’avanguardia – Eco ha trovato modo di dire tante altre cose, tutte interessanti, che spiace non potere trascrivere. Chissà, pensiamo infilandoci nell’ascensore, se il “bizantino” riuscirà un giorno a prevalere sull’illuminista? Su quella cultura dimezzata, cioè, che da due secoli ci soffoca dicendo che ci libera non riuscendo a vedere che «l’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è una infinità di cose che la superano».

 da:                                                                                                                                              

(Jesus, n. 4 – 1982)

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