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Ven. Lug 4th, 2025

da “San Domenico” di George Bernanos:

[…]

Lascia Roma nel maggio del 1221, se ne va per sempre. Due volte la febbre lo ha atterrato di sorpresa senza ancora riuscire a strappargli il suo ultimo segreto, la umile morte che Dio prepara in lui, e che già brilla con dolcezza nel suo cuore, come la fedele piccola lampada del santuario prima dell’aprirsi del mattino. Dopo un supremo colloquio a Venezia con il cardinale Ugolino, suo amico, egli ritorna al convento di Bologna, con l’ultimo volo delle sue grandi ali infaticabili. Vi giunge morente.

Le nostre agonie portano il segno del rimorso: testimoniano contro il passato, ne spezzano i vincoli, e, anticipando il giudizio ineffabile, denunciano in pieno la nostra onta. Ah! che il lenzuolo ricopra dopo un istante il corpo umiliato, vuoto, dove risplende, sola, l’Unzione! Ma la vita augusta del santo si lancia nell’agonia come in un abisso di luce e di soavità.

Stendono un grosso sacco per terra, ed egli vi si corica sopra.

Ecco l’uomo di cui certi forsennati vorranno fare un boia, e i meno fanatici una specie di ministro della polizia delle anime. Se egli li vede a quest’ora, con quello sguardo che già si tuffa nell’avvenire, il frate nero e bianco può bene alzare su di loro la sua grande mano dolce e dissolverli come una vampata di fumo! Lui, davanti al quale tutto si fa chiaro. non capisce nulla del loro odio, perché giustamente il loro odio non è nulla. Essi invocano contro di lui la scienza, ed egli l’ha amata più caramente di ciascuno di loro. La luce, ed egli sente che trabocca da lui. Il suo unico scrupolo, se ci fosse posto per uno scrupolo in un’anima cosi limpida, sarebbe piuttosto di aver troppo amato, troppo servito il primo rinascimento intellettuale, sino a sembrare di voler sacrificare allo studio quello stesso ufficio in coro che i suoi frati reciteranno oramai con una rapidità gioiosa, così diversa dalla tradizione benedettina. Il secolo si spaventava per una fonte di luce perduta, ritrovata a un tratto sotto le rovine del mondo antico, e, d’accordo con due ammirevoli pontefici, egli ha risollevato il suo secolo, l’ha mantenuto fremente nel fascio di luce che suo figlio Tommaso volgerà risolutamente verso la croce.

Intorno al moribondo, che finisce di vuotarsi del suo sangue mistico, di tutta la sua divina carità, in una effusione di lacrime austere, l’ordine ronza come un alveare con le sue centinaia di frati che domani saranno migliaia, le sue cinque province di Francia, Spagna, Lombardia, Roma, Provenza, e i suoi cinquanta conventi. La cristianità occidentale è salva, non soltanto dagli oscuri fanatici, il cui barbaro zelo condannava, col matrimonio, la vita stessa, ma dall’Islam, dallo scisma greco e dai furori di Federico II. Si, così com’è, questo uomo qui sdraiato è uno dei più grandi della storia, ed entra nondimeno nella morte, come ha traversato la vita, con lo stesso slancio, senza esitazioni, con lo sguardo di fanciullo. A larghi passi regolari, con la povera bisaccia sulle spalle, le tasche vuote, egli ha percorso diversi reami, e ora che è coricato per terra, ha lasciato la sua bisaccia, ma ha conservato le sue grosse scarpe. E’ pronto, se Dio lo suscita di nuovo. Non lascia nulla dietro a sé. I suoi figli bruceranno o dissemineranno le sue lettere; i libri annotati di suo pugno, il suo bastone da viaggio, i suoi abiti, la catena di ferro con cui su flagellava ogni notte con quel potente urlo la cui eco si ripercuoteva sino all’ultima cella dei frati che ascoltavano, atterriti. Dopo si avvolgeva tutto sanguinante nella sua cappa, e si stendeva sopra una panca o sopra un tavolo…

Questa volta si è disteso per sempre. Né il ricordo dei suoi ímmensi lavori, o delle mortificazioni durissime, delle predicazioni o dei miracoli, distoglie un solo istante il suo cuore. Egli teme soltanto che i suoi figliuoli si lascino, dopo la sua morte, trascinare verso una vita troppo comoda, e quando sa che i suoi frati ingrandiscono il convento e alzano il soffitto delle celle, lo vedono prima rompere in lacrime, poi scoppiare in imprecazioni terribili, invocando la maledizione di Dio sopra chiunque introdurrà l’uso della proprietà temporale nel suo ordine.

L’hanno trasportato sopra una collina dove l’aria è pura; ma egli teme che conservino lì il suo corpo. “ Dio non voglia ch’io venga sepolto altrove se non sotto i vostri piedi! ” Lo riportano sopra una lettiga fino al convento di San Nicola. Lo stendono per terra tutto sudato. Stefano di Spagna li segue con uno straccio di tela.

Ventura di Cremona ascolta la sua confessione generale. Quel debole soffio che il frate si sente passare sulla faccia è ormai tutto quanto resta della grande voce che sollevava tutta Roma, ed è anche la medesima voce che, nel ritiro della notte, chiamava Dio tante volte con un grido straziante, che ruggiva per gli infedeli, gli eretici, gli ebrei, e nell’ammirevole delirio d’una carità universale, che andava sino a voler far violenza alla stessa giustizia del Padre, pregava per i dannati (ad in infernos damnatos extendebat caritatem suam).

I fratelli sono adunati per raccogliere, se è possibile, qualche cosa della parola che si sta spegnendo. Domenico fa segno con la mano, essi si avvicinano. Dall’umile gesto del santo, capiscono che ha qualche riconoscimento pubblico da fare, e che pesa gravemente sul suo cuore. Colui che è parso al papa Innocenzo III in sogno portando la chiesa del Laterano sulle spalle, consigliere dei pontefici, consigliere dei principi, arbitro di tanti destini, maestro e legislatore di tante coscienze, scopre forse con sgomento, in quell’istante solenne, il carattere astratto, quasi terribile, della sua vocazione dottrinale? Quale scrupolo lo tormenta?

Egli alza sopra i fratelli i suoi occhi celesti, il suo sguardo intatto. “ Mi accuso ”, dice il maestro dei Predicatori, “ di aver sempre preferito, a quella delle vecchie, la conversazione delle donne giovani. ”

[…]


 

Da: “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati

[…]

Si trovò seduto su di una larga poltrona, in una camera da letto; ed
era una sera stupenda che lasciava entrare dalla finestra l’aria
profumata. Drogo guardava atono il cielo che si faceva sempre più
azzurro, le ombre violette del vallone, le creste ancora immerse nel
sole. La Fortezza era lontana, non si scorgevano più nemmeno le sue montagne.
Doveva essere quella una sera di felicità per gli uomini anche di
media fortuna. Giovanni pensò alla città nel crepuscolo, le dolci
ansie della nuova stagione, giovani coppie nei viali lungo il fiume,
dalle finestre già accese, accordi di pianoforte, il fischio di un
treno da lontano. Immaginò i fuochi del bivacco nemico in mezzo alla
pianura del nord, le lanterne della Fortezza che oscillavano al vento,
la notte insonne e meravigliosa prima della battaglia. Tutti in un
modo o nell’altro avevano qualche motivo, anche piccolo, per sperare, tutti fuori che lui.
Di sotto, nella sala comune, un uomo, poi due insieme, si erano messi a cantare, una specie di canzone popolare di amore. Nel sommo del cielo, là dove l’azzurro si faceva profondo, brillarono tre o quattro stelle. Drogo era solo nella camera, l’attendente era sceso a bere un bicchiere, negli angoli e sotto i mobili si accumulavano ombre sospette. Giovanni per un istante sembrò non resistere (nessuno in fin dei conti lo vedeva, nessuno lo avrebbe saputo al mondo), il maggiore Drogo per un istante sentì che il duro carico dell’animo suo stava perrompere in pianto.
Proprio allora dai fondi recessi uscì limpido e tremendo un nuovo
pensiero: la morte.
Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, come per rotto
incanto. Il vortice si era fatto negli ultimi tempi sempre più
intenso, poi improvvisamente più nulla, il mondo ristagnava in una
orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente. La strada di
Drogo era finita; eccolo ora sulla solitaria riva di un mare grigio e
uniforme, e attorno né una casa né un albero né un uomo, tutto così da immemorabile tempo.
Dagli estremi confini egli sentiva avanzare su di sé un’ombra
progressiva e concentrica, era forse questione di ore, forse di
settimane o di mesi; ma anche i mesi e le settimane sono ben povera cosa quando ci separano dalla morte. La vita dunque si era risolta in una specie di scherzo, per un’orgogliosa scommessa tutto era stato perduto.
Fuori il cielo era diventato di un azzurro intenso, all’occidente
tuttavia restava una striscia di luce, sopra i violetti profili delle
montagne. E nella camera era entrato il buio, si distinguevano
unicamente le sagome minacciose dei mobili, il biancore del letto, la
lucida sciabola di Drogo. Di là – capiva – egli non si sarebbe più
mosso.
Avvolto così dalle tenebre, mentre di sotto continuavano le dolci
canzoni fra gli arpeggi di una chitarra, Giovanni Drogo sentì allora
nascere in sé una estrema speranza. Lui solo al mondo e malato,
respinto dalla Fortezza come peso importuno, lui che era rimasto
indietro a tutti, lui timido e debole, osava immaginare che tutto non
fosse finito; perché forse era davvero giunta la sua grande occasione,
la definitiva battaglia che poteva pagare l’intera vita. Avanzava
infatti contro Giovanni Drogo l’ultimo nemico. Non uomini simili a
lui, tormentati come lui da desideri e dolori, di carne da poter
ferire, con facce da poter guardare, ma un essere onnipotente e
maligno; non c’era da combattere sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera, non amici al fianco la cui vista rianimi il cuore, non l’acre odore di polvere e
fucilate, né promesse di gloria. Tutto succederà nella stanza di una
locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non
si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra
i sorrisi di giovani donne. Non c’è nessuno che guardi, nessuno che
gli dirà bravo.
Oh, è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava.
Anche vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare. Perché puòessere bello morire all’aria libera, nel furore della mischia, col
proprio corpo ancora giovane e sano, fra trionfali echi di tromba; più
triste è certo morire di ferita, dopo lunghe pene, in un camerone
d’ospedale; più melanconico ancora finire nel letto domestico, in
mezzo ad affettuosi lamenti, luci fioche e bottiglie di medicine. Ma
nulla è più difficile che morire in un paese estraneo ed ignoto, sul
generico letto di una locanda, vecchi e imbruttiti, senza lasciare
nessuno al mondo.
“Coraggio, Drogo, questa è l’ultima carta, va incontro alla morte da
soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene.
Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessunoti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale lapena. Varca con piede fermo il limite dell’ombra, diritto come a unaparata, e sorridi anche, se ci riesci. Dopo tutto la coscienza non è troppo pesante e Dio saprà perdonare.”
Questo, Giovanni diceva a se stesso – una specie di preghiera –
sentendo stringersi attorno a sé il cerchio conclusivo della vita. E
dall’amaro pozzo delle cose passate, dai desideri rotti, dalle
cattiverie patite, veniva su una forza che mai lui avrebbe osato
sperare. Con inesprimibile gioia Giovanni Drogo si accorse,
d’improvviso, di essere assolutamente tranquillo, ansioso quasi di
ricominciare la prova. Ah, non si poteva pretendere tutto dalla vita?
Così dunque, Simeoni? Adesso Drogo ti farà un po’ vedere.
Coraggio, Drogo. E lui provò a fare forza, a tenere duro, a scherzare
con il pensiero tremendo. Ci mise tutto l’animo suo, in uno slancio
disperato, come se partisse all’assalto da solo contro un’armata. E
subitamente gli antichi terrori caddero, gli incubi si afflosciarono,
la morte perse l’agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e
conforme a natura. Il maggiore Giovanni Drogo, consunto dalla malattia e dagli anni, povero uomo, fece forza contro l’immenso portale nero e si accorse che i battenti cadevano, aprendo il passo alla luce.
Povera cosa gli risultò allora quell’affannarsi sugli spazi della
Fortezza, quel perlustrare la desolata pianura del nord, le sue pene
per la carriera, quegli anni lunghi di attesa. Non c’era neanche più
bisogno di invidiare Angustina. Sì, Angustina era morto in cima a una montagna nel cuore della tempesta, se n’era andato da par suo, davvero con molta eleganza. Ma assai più ambizioso era finire da prode nelle condizioni di Drogo, mangiato dal male, esiliato fra ignota gente.
Solo gli dispiaceva di doversene andare di là con quel suo misero
corpo, le ossa sporgenti, la pelle biancastra e flaccida. Angustina
era morto intatto – pensava Giovanni – la sua immagine, nonostante gli anni, si era mantenuta quella di un giovane alto e delicato, dal volto nobile e gradito alle donne: questo il suo privilegio. Ma chissà che, passata la nera soglia, anche lui Drogo non sarebbe potuto tornare come una volta, non bello (perché bello non era mai stato) ma fresco di giovinezza. Che gioia, si diceva Drogo al pensiero, come un bambino, poiché si sentiva stranamente libero e felice.
Ma poi gli venne in mente: e se fosse tutto un inganno? se il suo
coraggio non fosse che una ubriacatura? se dipendesse solo dal
meraviglioso tramonto, dall’aria profumata, dalla pausa dei dolori
fisici, dalle canzoni al piano di sotto? e fra pochi minuti, fra
un’ora, egli dovesse tornare il Drogo di prima, debole e sconfitto?
No, non pensarci. Drogo, adesso basta tormentarsi, il più oramai è
stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno
più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte
verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato
fatto, non ti possono più defraudare.
La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può
distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco
dovrebbe levarsi la luna.
Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta
della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio
di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di
primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e
adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza,
Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il
colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra,
una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. Poi nel
buio, benché nessuno lo veda, sorride.

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