[11]Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. [12]Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. [13]Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. [14]Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. [15]Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. [16]Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. [17]Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! [18]Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; [19]non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. [20]Partì e si incamminò verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. [21]Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. [22]Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. [23]Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, [24]perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
[25]Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; [26]chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. [27]Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. [28]Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. [29]Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. [30]Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. [31]Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; [32]ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
[Lc 15, 11-32]
Da: “L’Evangelo come mi è stato rivelato”, vol. III, cap. 205, ed. CEV
205. La parabola del figlio prodigo.
30 giugno 1945. «Giovanni di Endor, vieni qui con Me. Ti devo parlare» dice Gesù affacciandosi sull’uscio. L’uomo accorre lasciando il bambino al quale insegnava qualcosa. «Che mi vuoi dire, Maestro? » chiede. «Vieni con Me qui sopra ». Salgono sulla terrazza e si siedono dalla parte più riparata perché, per quanto sia mattina, il sole è già forte. Gesù gira lo sguardo sulla campagna coltivata, in cui i grani di giorno in giorno divengono d’oro e gli alberi gonfiano le loro frutta. Pare volere attingere il pensiero da quella metamorfosi vegetale. «Senti, Giovanni. Oggi Io credo che verrà Isacco per condurmi i contadini di Giocana prima della loro partenza. Ho detto a Lazzaro di prestare a Isacco un carro per fare loro accelerare il ritorno senza tema di giungere con un ritardo che provocherebbe loro un castigo. E Lazzaro lo fa. Perché Lazzaro fa tutto ciò che Io dico. Ma da te Io voglio un’altra cosa. Ho qui una somma che mi è stata data da una creatura per i poveri del Signore. Generalmente è un mio apostolo l’incaricato di tenere le monete e di dare gli oboli. E Giuda di Keriot generalmente; qualche volta gli altri. Giuda non è presente. Gli altri non voglio siano a cognizione di quel che voglio fare. Anche Giuda questa volta non lo sarebbe. Lo farai tu, in mio nome…». «Io, Signore?… Io?… Oh! non ne sono degno!… ». «Ti devi abituare a lavorare in mio nome. Non sei venuto per questo? ». «Sì. Ma pensavo dovere lavorare a ricostruire la povera anima mia». «E Io te ne do il mezzo. In che hai peccato? Contro la misericordia e l’amore. Con l’odio hai demolito la tua anima. Con l’amore e la misericordia la ricostruirai. Io te ne do il materiale. Ti adibirò particolarmente alle opere di misericordia e di amore. Tu sei anche capace di curare, tu sei capace di parlare. Per questo sei atto ad avere cura delle infelicità fisiche e morali, e hai capacità di farlo. Inizierai con quest’opera. Tieni la borsa. La darai a Michea e ai suoi amici. Fànne parti uguali. Ma fàlle così come Io dico. La dividi per dieci, poi ne dai quattro parti a Michea: una per sé, una per Saulo, una per Gioele e una per Isaia. E le altre sei le dai a Michea perché le dia al vecchio padre di Jabé, per sé e per i suoi compagni. Potranno così avere qualche conforto ». «Va bene. Ma che dico loro per giustificare? ». Dirai: “Questo è perché vi ricordiate di pregare per un’anima che si redime” «Ma potranno pensare che sia io! Non è giusto! ». « Perché? Non ti vuoi redimere? ». «Non è giusto che pensino che sia io il donatore ». «Lascia, e fa’ come Io dico ». « Ubbidisco… ma almeno concedimi di mettere anche io qualche cosa. Tanto… ora non mi occorre più nulla. Libri non ne compero più, polli da nutrire non ne ho più. A me basta tanto poco… Tieni, Maestro. Serbo solo un minimo per le spese dei sandali…» ed estrae da una borsa che aveva in cintura molte monete e le aggiunge alle monete di Gesù. «Dio ti benedica per la tua misericordia… Giovanni, fra poco ci lasceremo perché tu andrai con Isacco ». «Me ne duole, Maestro. Ma ubbidisco ». «Anche a Me duole di allontanarti. Ma ho tanto bisogno di discepoli peregrinanti. Io non basto più. Presto lancerò gli apostoli, poi manderò i discepoli. E tu farai molto bene. Ti serberò a speciali missioni. Intanto con Isacco ti formerai. E tanto buono e lo Spirito di Dio lo ha veramente istruito durante la lunga malattia. Ed è l’uomo che tutto ha sempre perdonato… Lasciarci, del resto, non vuole dire non vederci più. Ci incontreremo sovente, e ogni volta che ci ritroveremo parlerò proprio per te, ricordatelo… ». Giovanni si piega su se stesso, si nasconde il volto fra le mani con un aspro scoppio di pianto, e geme: «Oh! allora dimmi subito qualche cosa che mi persuada che io sono perdonato… che io posso servire Dio… Se sapessi, ora che è caduto il fumo dell’odio, come vedo la mia anima… e come… e come penso a Dio…». «Lo so, non piangere. Resta nell’umiltà, ma non ti avvilire. L’avvilimento è ancora superbia. Solo, solo umiltà abbi. Suvvia, non piangere…». Giovanni di Endor si calma poco a poco… Quando lo vede calmato, Gesù dice: «Vieni, andiamo sotto quel folto di meli e raduniamo i compagni e le donne. Parlerò a tutti, ma ti dirò come Dio ti ama». Scendono, radunandosi intorno gli altri man mano che vanno, e si siedono poi a cerchio sotto l’ombra del pometo. Anche Lazzaro, che parlava con lo Zelote, si aggiunge alla compagnia. Venti persone in tutto. « Udite. E’ una bella parabola che vi guiderà con la sua luce in tanti casi. Un uomo aveva due figli. Il maggiore era serio, lavoratore, affezionato, ubbidiente. Il secondo era intelligente più del maggiore – che in verità era un poco ottuso e si lasciava guidare per non avere da affaticarsi a decidere da sé – ma in compenso era anche ribelle, svagato, amante del lusso e del piacere, dissipatore e ozioso. L’intelligenza è un grande dono di Dio. Ma è un dono che va usato saggiamente. Altrimenti è come certi farmachi i quali, usati in mal modo, non sanano ma uccidono. Il padre – era nel suo diritto e nel suo dovere – lo richiamava a vita più saggia. Ma senza alcun utile, tolto quello di averne male risposte e un maggior irrigidimento del figlio nelle proprie cattive idee. Infine un giorno, dopo una disputa più fiera, il figlio minore disse: “Dàmmi la mia parte dei beni. Così non sentirò più i tuoi rimproveri e i lagni del fratello. Ognuno il suo e sia finito tutto”. “Guarda “rispose il padre” che presto sarai rovinato. Che farai allora? Pensa che io non sarò ingiusto in favore di te e non riprenderò un picciolo a tuo fratello per darlo a te”. “Non ti chiederò nulla. Sta’ sicuro. Dàmmi la mia parte”. Il padre fece stimare le terre e le cose preziose e, visto che denaro e gioielli facevano tanto quanto le terre, dette al maggiore i campi e i vigneti, le mandre e gli ulivi, e al minore il denaro e i gioielli, che il giovane vendette subito mutando tutto in denaro. E fatto questo, in pochi giorni, se ne andò in lontano paese dove visse da gran signore, scialacquando tutto il suo in bagordi di ogni specie, facendosi credere un figlio di re perché si vergognava di dire: “sono campagnolo”, rinnegando perciò il padre suo. Festini, amici e amiche, vesti, vini, giuoco… vita dissoluta… Presto vide scemare la sostanza e venire avanti la miseria. E con la miseria, a farla più grave, venne nel paese una grande carestia che dette fondo ai resti della sostanza. Avrebbe potuto andare dal padre. Ma era superbo e non volle. Andò allora da un riccone del paese, già suo amico nei tempi buoni, e lo pregò dicendo: “Accoglimi fra i tuoi servi in ricordo di quando godesti delle mie dovizie”. Vedete voi come è stolto l’uomo! Preferisce mettersi sotto la frusta di un padrone anziché dire ad un padre: “Perdono! Ho sbagliato!”. Quel giovane aveva imparato tante cose inutili con la sua intelligenza aperta, ma non aveva voluto imparare il detto dell’Ecclesiastico: “Quanto è infame colui che abbandona il padre suo e quanto è maledetto da Dio chi fa inquietare la madre”. Era intelligente ma non sapiente. L’uomo a cui si era rivolto, in cambio del molto che aveva goduto dal giovane stolto, mise questo stolto di guardia ai porci – perché si era in paese pagano e vi erano molti porci – e lo mandò a pasturare nei suoi possessi le mandre dei porci. Lurido, stracciato, puzzolente, affamato – perché il cibo era scarso per tutti i servi e specie per gli infimi, e lui, straniero mandriano di porci e deriso, era ritenuto tale – vedeva i porci satollarsi delle ghiande e sospirava: “Potessi almeno io pure empirmi il ventre di questi frutti! Ma sono troppo amari! Neppure la fame me li fa parere buoni”. E piangeva pensando ai ricchi festini da satrapo fatti poco tempo prima fra risa, canti, danze… e pensava poi agli onesti pranzi ben nutriti della sua casa lontana, alle porzioni che il padre faceva a tutti imparzialmente, serbando per sé sempre il meno, lieto di vedere il sano appetito dei suoi figli… e pensava anche alle parti fatte ai servi da quel giusto, e sospirava: “I garzoni di mio padre, anche i più infimi, hanno pane in abbondanza… e io qui muoio di fame…”. Un lungo lavoro di riflessione, una lunga lotta per strozzare la superbia… lnfine venne il giorno che, rinato nell’umiltà e nella sapienza, sorse in piedi e disse: “Io vado dal padre mio! E’ stolto questo orgoglio che mi fa prigione. E di che? Perché soffrire e nel corpo e più nel cuore mentre posso avere perdono e sollievo? Vado dal padre mio. E’ detto. Che gli dirò? Ma quello che è nato qui dentro, in questa abbiezione, fra queste lordure, fra i morsi della fame! Gli dirò: “Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami perciò come l’infimo dei tuoi garzoni, ma sopportami sotto il tuo tetto. Che io ti veda passare…“. Non potrò dirgli: “…perché ti amo”. Non lo crederebbe. Ma lo dirà la mia vita, ed egli lo comprenderà, e prima di morire mi benedirà ancora… Oh! lo spero. Perché mio padre mi ama”. E, tornato la sera in paese, si licenziò dal padrone, e mendicando per via tornò a casa sua. Ecco i campi paterni… e la casa… e il padre che dirigeva i lavori, invecchiato, scarnito dal dolore, ma sempre buono… Il colpevole, guardando quella rovina causata da lui, si fermò intimorito… ma il padre, girando l’occhio, lo vide e gli corse incontro, perché era ancora lontano, e raggiuntolo gli gettò le braccia al collo e lo baciò. Solo il padre aveva riconosciuto in quel mendicante avvilito la sua creatura e solo lui aveva avuto un movimento di amore. Il figlio, stretto fra quelle braccia, con il capo sulla spalla paterna, mormorò fra i singhiozzi: “Padre, lascia che io mi getti ai tuoi piedi”. “No, figlio mio! Non ai piedi. Sul mio cuore, che ha tanto sofferto della tua assenza e che ha bisogno di rivivere col sentire il tuo calore sul mio petto”. E il figlio, piangendo più forte, disse: “Oh! padre mio! Io ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato da te: figlio. Ma permettimi di vivere fra i tuoi servi, sotto il tuo tetto, vedendoti, mangiando il tuo pane, servendoti, bevendo il tuo alito. Ad ogni boccone di pane, ad ogni tuo respiro si riformerà il mio cuore tanto corrotto e diverrò onesto…”. Ma il padre, tenendolo sempre abbracciato, lo condusse verso i servi, che si erano ammucchiati in distanza e che osservavano, e disse loro: “Presto, portate qui la veste più bella e catini di acque odorose, lavatelo, profumatelo, rivestitelo, mettetegli dei calzari nuovi e un anello al dito. Poi prendete un vitello ingrassato e ammazzatelo. E si prepari un banchetto. Perché questo figlio mio era morto ed ora è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato. Io voglio che ora lui pure ritrovi il suo semplice amore di pargolo; e il mio amore e la festa della casa per il suo ritorno glielo devono dare. Deve capire che egli è sempre per me il caro bambino ultimo nato, quale era nella infanzia sua lontana, quando mi camminava al fianco facendomi beato col suo sorriso e il suo balbettio”. E così fecero. i servi. Il figlio maggiore era in campagna e non seppe nulla fino al suo ritorno. A sera, venendo verso casa, la vide luminosa di lumi e udì suoni di strumenti e danze uscire da essa. Chiamò un servo che correva indaffarato e gli disse: “Che avviene?”. E il servo rispose: “E’ tornato tuo fratello! Tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso perché ha riavuto il figlio e sano, guarito dal suo grande male, ed ha ordinato banchetto. Non si attende che te per cominciare”. Ma il primogenito, in collera perché gli pareva ingiustizia tanta festa per il minore, che oltre che minore era stato cattivo, non volle entrare e anzi fece per allontanarsi da casa. Ma il padre, avvertito di questo, corse fuori e lo raggiunse tentando di convincerlo e pregandolo di non amareggiargli la sua gioia. Il primogenito rispose al padre suo: “E vuoi che io non sia inquieto? Tu fai ingiustizia e spregio al tuo primogenito. Io da quando ho potuto lavorare ti ho servito, e sono molti anni. Io non ho mai trasgredito ad un tuo comando, neppure ad un tuo desiderio. Io ti sono sempre stato vicino e ti ho amato per due per farti guarire dalla piaga fatta da mio fratello. E tu non mi hai dato neppure un capretto per godermelo cogli amici. Questo, che ti ha offeso, che ti ha abbandonato, che è stato infingardo e dissipatore e che torna ora perché è spinto dalla fame, tu lo onori e per lui ammazzi il vitello più bello. Vale la pena essere lavoratori e senza vizi! Questo non me lo dovevi fare! Il padre disse allora stringendoselo al seno: “Oh! figlio mio! E puoi credere che io non ti ami perché non stendo un velo di festa sulle tue azioni? Le tue azioni sono sante di loro, e il mondo ti loda per esse. Ma questo tuo fratello, invece, ha bisogno di essere rialzato nella stima del mondo e nella stima sua stessa. E credi tu che io non ti ami perché non ti do un premio visibile? Ma mattina e sera e in ogni mio alito e pensiero tu sei presente al mio cuore, e ad ogni attimo io ti benedico. Tu hai il premio continuo di essere sempre con me, e tutto quanto è mio è tuo. Ma era giusto banchettare e fare festa per questo tuo fratello, che era morto ed è risuscitato al Bene, che era perduto ed è stato ritornato al nostro amore”. E il primogenito si arrese. Cosi, amici miei, succede nella Casa del Padre. E chi si sa uguale al figlio minore della parabola pensi pure che, se lo imita nell’andare al Padre, il Padre gli dice: “Non ai miei piedi. Ma sul mio cuore, che ha sofferto della tua assenza e che ora è beato per il tuo ritorno”. Chi è in condizioni di figlio primogenito e senza colpa verso il Padre, non sia geloso della gioia paterna, ma ne prenda parte, dando amore al fratello redento. Ho detto. Rimani, Giovanni di Endor, e tu, Lazzaro. Gli altri vadano a preparare le mense. Presto verremo». Tutti si ritirano. Quando Gesù, Lazzaro e Giovanni sono soli, Gesù dice a Lazzaro e Giovanni: «Così si farà dell’anima cara che tu attendi, Lazzaro, e così si fa della tua, Giovanni. La bontà di Dio supera ogni misura”… …Gli apostoli, insieme alla Madre e alle donne, vanno verso casa preceduti da Marjziam che saltella correndo avanti. Ma presto ritorna e prende Maria per mano dicendole: «Vieni con me. Ti devo dire una cosa, da soli ». E Maria lo accontenta. Torcono verso il pozzo, sito in un angolo del cortiletto, tutto velato da una pergola folta che da terra sale con un arco verso la terrazza. « Là dietro è l’Iscariota. Giuda, che vuoi? Vai, Marjziam… Parla, che vuoi? ». «Io sono in colpa… Non oso andare dal Maestro né affrontare i compagni… Aiutami…». «Ti aiuterò. Ma non pensi quanto dolore dài? Mio Figlio ha pianto per causa tua. E i compagni ne hanno sofferto. Ma vieni. Nessuno ti dirà niente. E, se puoi, non ricadere più in queste colpe. E indegno di un uomo, ed è sacrilego verso il Verbo di Dio». «E tu, Madre, mi perdoni?». «Io? Io non conto presso te che ti senti tanto grande. Io sono la più piccola delle serve del Signore. Come ti puoi preoccupare di me se non hai pietà di mio Figlio?». «Perché ho anche io una madre e, se ho il tuo perdono, mi pare di avere il suo ». «Ella non sa questa tua colpa». «Ma ella mi aveva fatto giurare di essere buono col Maestro. Sono spergiuro. Sento il rimprovero dell’anima di mia madre». «Senti questo? E il lamento e il rimprovero del Padre e del Verbo non lo senti? Sei un disgraziato, Giuda! Semini, in te e in chi ti ama, il dolore ». Maria è molto seria e mesta. Senza acredine parla, ma con molta serietà. Giuda piange. «Non piangere. Ma migliorati. Vieni» e lo prende per mano entrando così nella cucina. Lo stupore di tutti è vivissimo. Ma Maria previene ogni uscita poco pietosa. Dice: «Giuda è ritornato. Fate come il primogenito dopo il discorso del padre. Giovanni, va’ ad avvisare Gesù». Giovanni di Zebedeo parte di corsa. Un silenzio grava nella cucina… Poi Giuda dice: «Perdonatemi, tu Simone per il primo. Hai un cuore tanto paterno. Sono un orfano io pure». «Si, sì, ti perdono. Per favore, non parlarne più. Siamo fratelli… e non mi piacciono questi alti e bassi di perdoni chiesti e di ricadute fatte. Avviliscono chi li fa e chi li dà. Ecco Gesù. Vai da Lui. E basta». Giuda va mentre Pietro, non potendo fare altro, si dà a spezzare con foga delle legna secche…
Luca 15, 1-3.11-32 Omelia di padre Raniero Cantalamessa
Il Vangelo di oggi è la parabola del figliol prodigo. Questa parabola non si può migliorare con le nostre parole di commento, si può solo sciupare. È una storia e come tale va ascoltata. Allora il mio compito sarà quello di prestare la voce a Gesù perché egli la faccia risuonare di nuovo oggi in mezzo a noi. Solo mi fermerò, dopo ogni paragrafo, per fare qualche breve sottolineatura e non scivolare su certi dettagli importanti.
“Disse ancora: Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto”.
Quanta tristezza in questa prima scena! Non una parola di grazie del figlio al padre. Non un pensiero per il sudore che forse è costato al padre mettere insieme quell’eredità. Il padre è ridotto a un trasmettitore di patrimonio. Il patrimonio è tutto quello che gli interessa del padre, non i consigli, i valori, gli affetti. Chiede la sua parte di eredità come se il padre fosse già morto. L’eredità “che mi spetta”: si ricorda di essere figlio solo per rivendicare il suo diritto all’eredità.
Gesù non ha inventato dal nulla la storia che narra nella sua parabola, l’ha desunta, purtroppo, dalla vita. Si tratta di una situazione, tra l’altro, oggi assai più frequente che ai suoi giorni. Ragazzi che se ne vanno di casa sbattendo la porta; che consumano nella droga o in altri disordini il patrimonio paterno, e poi, quando hanno finito il denaro, tornano senza vergogna, spesso per chiederne dell’altro, non per chiedere perdono. Non insisto su questo perché la realtà, su questo punto, è sempre più varia e più triste di quanto possiamo immaginare. E tanti padri hanno compreso al volo. Proseguiamo nella lettura:
“Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava”.
Adesso sappiamo cosa intendeva fare con la sua parte di eredità. Non servirsene come base per costruire egli stesso qualcosa nella vita, ma per “vivere da dissoluto” (il fratello maggiore più tardi espliciterà: “per divorare gli averi paterni con le prostitute”). L’esito è quello di sempre, in questi casi: finiti i soldi, finiti gli amici. Il ragazzo si ritrova solo, sprovvisto di tutto, a pascere i porci. Questo non è certo oggi il lavoro più allettante per un giovane, ma per un ebreo di quel tempo era addirittura la più grande ignominia, perché il maiale era considerato animale immondo. Leggiamo ancora:
“Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso suo padre”.
All’inizio del mutamento c’è l’attimo in cui il giovane “rientra in se stesso”. A partire dall’istante in cui dice tra sé: “Ho peccato”, è già una persona nuova. Tutto il seguito non è che un eseguire ormai la decisione presa. Quante cose straordinarie scaturiscono, a volte, dal coraggio di rientrare in se stessi, dal mettersi a nudo di fronte alla propria coscienza. Andiamo avanti.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio”.
Da questo momento il protagonista non è più il figlio, ma il padre. Se lo vide “quando era ancora lontano”, è perché, dal giorno in cui il figlio era partito, non aveva cessato di scrutare spesso l’orizzonte. “Commosso, gli corse incontro”. Nessun accenno alla sua pena, alle sue ragioni, nessun rimprovero. Non lo trattiene il sentimento di dignità che vieterebbe a un anziano di mettersi a correre. Sono le sue viscere paterne a comandare.
Rembrandt ha fissato in un quadro famoso il momento in cui il figlio si getta ai piedi del padre per fare la sua confessione. In esso colpisce l’intensità del volto del padre e la tenerezza con cui appoggia le sue due mani sulle spalle del ragazzo. Di tutto quello che ha portato via con sé da casa, non resta al ragazzo, in questo quadro, che il pugnale (che tutti a quel tempo portavano per difendersi dalle fiere), una veste sbrindellata e sandali che non stanno più nei piedi. Si capisce, da questa immagine, il perché di quello che segue nella parabola:
“Il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa”.
Tutto, in questa parabola, è sorprendente. Mai Dio era stato dipinto agli uomini con questi tratti. Ha toccato più cuori questa parabola da sola che tutti i discorsi dei predicatori messi insieme. Essa ha un potere incredibile di agire sulla mente, sul cuore, sulla fantasia, sulla memoria. Sa toccare le corde più diverse: il rimpianto, la vergogna, la nostalgia.
Gesù non ha dovuto inventare dal nulla questa immagine di Dio; l’ha succhiata, per così dire, con il latte materno. Egli ha portato alla perfezione, come Figlio “che è nel seno del Padre”, l’idea di Dio che si riscontra nei momenti più alti della rivelazione biblica. Nei profeti si parla di un Dio che prova “un tuffo al cuore”, che si sente “fremere di compassione le viscere” ogni volta che si ricorda di Efraim, il suo figlio primogenito, che non mostra il suo volto sdegnato e non conserva per sempre la collera, ma si compiace di avere misericordia.
Èquesto forse il legame più profondo che esiste tra ebrei e cristiani. Non abbiamo in comune solo lo stesso “padre Abramo”, ma lo stesso “Dio Padre”. Lo stesso volto paterno di Dio brilla e rischiara le due fedi. Non siamo uniti solo dal fatto che gli uni e gli altri adoriamo un Dio unico e siamo due religioni monoteistiche, ma più ancora dall’idea che gli uni e gli altri abbiamo di questo Dio unico: un Dio pieno di tenerezza e di compassione.
Nella nostra parabola si parla di un figlio maggiore che resta a casa e che si risente, anzi, per l’atteggiamento, secondo lui, troppo debole del padre verso il figlio minore. A volte in passato si è pensato che questo “fratello maggiore” della parabola stia a indicare il popolo ebraico, geloso del fatto che Gesù si rivolgeva ai pagani e ai peccatori. Ma non è esatto. Non è certo in questo senso negativo che Giovanni Paolo II, nella sinagoga di Roma, ha chiamato gli ebrei “nostri fratelli maggiori”! Fratelli maggiori perché credenti prima di noi nello stesso Dio in cui crediamo noi.
Di fratelli maggiori, nel senso negativo della parabola, ce n’erano certamente tra gli ebrei al tempo di Gesù. Erano alcuni scribi e farisei intransigenti cultori della legge, gretti e chiusi a ogni prospettiva di universalità della salvezza. Quelli ai quali Gesù rivolse un giorno la dura frase: “Andate e imparate cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori” (Matteo 9,13). Ma di questi “fratelli maggiori” ce ne sono anche tra noi cristiani e a volte purtroppo anche dentro il confessionale, tra coloro che dovrebbero impersonare, il quel momento, il padre della parabola, e non il fratello maggiore arcigno e pieno di rimproveri. Il padre è colui a cui importa una cosa sola: che il figlio sia tornato; il fratello maggiore è colui cui importa che “ha dissipato i suoi averi con le prostitute”. Spesso a determinare l’atteggiamento di intransigenza è un falso senso della giustizia dovuto alla formazione ricevuta o al temperamento. Sono persone rigorose con sé e con gli altri, mentre il Vangelo ci vuole rigorosi con noi stessi, ma misericordiosi con gli altri.
Vi sono dei cristiani che hanno fatto una volta una esperienza negativa in questo campo e da quel giorno hanno giurato di non confessarsi più e hanno mantenuto, purtroppo il proponimento. Ma non è giusto privarsi di un tale dono per un incidente del genere. In questo tempo di preparazione alla Pasqua nel cuore di tanti dovrebbe affiorare piuttosto il proponimento del ragazzo della parabola: “Mi leverò e andrò da mio padre, e gli dirò: Padre ho peccato!”.
Quanti hanno fatto, nel sacramento della riconciliazione, la stessa esperienza del figliol prodigo. È una delle gioie e dei ricordi più belli nella vita di un sacerdote. Persone che si alzano e si allontanano tra le lacrime, letteralmente rinati a nuova vita, che dicono a volte apertamente: “Io ero morto e sono tornato in vita”. L’Eucaristia è il banchetto di festa che Dio imbandisce per ogni figlio che torna. Non bisogna disertarlo a lungo semplicemente perché si ha ripugnanza a confessarsi.
Termino con le parole di Paolo nella seconda lettura di oggi che sono la migliore conclusione alla parola:
“È stato Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola di riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro: lasciatevi riconciliare con Dio”