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Gio. Giu 26th, 2025

La Religione Cattolica

PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 15 novembre 1972

Quali sono oggi i bisogni maggiori della Chiesa?

Non vi stupisca come semplicista, o addirittura come superstiziosa e irreale la nostra risposta: uno dei bisogni maggiori è la difesa da quel male, che chiamiamo il Demonio.

Prima di chiarire il nostro pensiero invitiamo il vostro ad aprirsi alla luce della fede sulla visione della vita umana, visione che da questo osservatorio spazia immensamente e penetra in singolari profondità. E, per verità, il quadro che siamo invitati a contemplare con globale realismo è molto bello. È il quadro della creazione, l’opera di Dio, che Dio stesso, come specchio esteriore della sua sapienza e della sua potenza, ammirò nella sua sostanziale bellezza (Cfr. Gen. 1, 10, etc.).

Poi è molto interessante il quadro della storia drammatica della umanità, dalla quale storia emerge quella della redenzione, quella di Cristo, della nostra salvezza, con i suoi stupendi tesori di rivelazione, di profezia, di santità, di vita elevata a livello soprannaturale, di promesse eterne (Cfr. Eph. 1, 10). A saperlo guardare questo quadro non si può non rimanere incantati (Cfr. S. AUG. Soliloqui): tutto ha un senso, tutto ha un fine, tutto ha un ordine, e tutto lascia intravedere una Presenza-Trascendenza, un Pensiero, una Vita, e finalmente un Amore, così che l’universo, per ciò che è e per ciò che non è, si presenta a noi come una preparazione entusiasmante e inebriante a qualche cosa di ancor più bello ed ancor più perfetto (Cfr. 1 Cor. 2, 9; 13, 12; Rom. 8, 19-23). La visione cristiana del cosmo e della vita è pertanto trionfalmente ottimista; e questa visione giustifica la nostra gioia e la nostra riconoscenza di vivere per cui celebrando la gloria di Dio noi cantiamo la nostra felicità (Cfr. il Gloria della Messa).

L’INSEGNAMENTO BIBLICO

Ma è completa questa visione? è esatta? Nulla ci importano le deficienze che sono nel mondo? le disfunzioni delle cose rispetto alla nostra esistenza? il dolore, la morte? la cattiveria, la crudeltà, il peccato, in una parola, il male? e non vediamo quanto male è nel mondo? specialmente, quanto male morale, cioè simultaneamente, sebbene diversamente, contro l’uomo e contro Dio? Non è forse questo un triste spettacolo, un inesplicabile mistero? E non siamo noi, proprio noi cultori del Verbo i cantori del Bene, noi credenti, i più sensibili, i più turbati dall’osservazione e dall’esperienza del male? Lo troviamo nel regno della natura, dove tante sue manifestazioni sembrano a noi denunciare un disordine. Poi lo troviamo nell’ambito umano, dove incontriamo la debolezza, la fragilità, il dolore, la morte, e qualche cosa di peggio; una duplice legge contrastante, una che vorrebbe il bene, l’altra invece rivolta al male, tormento che S. Paolo mette in umiliante evidenza per dimostrare la necessità e la fortuna d’una grazia salvatrice, della salute cioè portata da Cristo (Cfr. Rom. 7); già il poeta pagano aveva denunciato questo conflitto interiore nel cuore stesso dell’uomo: video meliora proboque, deteriora sequor (OVIDIO, Met. 7, 19). Troviamo il peccato, perversione della libertà umana, e causa profonda della morte, perché distacco da Dio fonte della vita (Rom. 5, 12), e poi, a sua volta, occasione ed effetto d’un intervento in noi e nel nostro mondo d’un agente oscuro e nemico, il Demonio. Il male non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa.

Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente; ovvero chi ne fa un principio a sé stante, non avente essa pure, come ogni creatura, origine da Dio; oppure la spiega come una pseudo-realtà, una personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni. Il problema del male, visto nella sua complessità, e nella sua assurdità rispetto alla nostra unilaterale razionalità, diventa ossessionante. Esso costituisce la più forte difficoltà per la nostra intelligenza religiosa del cosmo. Non per nulla ne soffrì per anni S. Agostino: Quaerebam unde malum, et non erat exitus, io cercavo donde provenisse il male, e non trovavo spiegazione (S. Aug. Confess. VII, 5, 7, 11, etc.; PL, 32, 736, 739).

Ed ecco allora l’importanza che assume l’avvertenza del male per la nostra corretta concezione cristiana del mondo, della vita, della salvezza. Prima nello svolgimento della storia evangelica al principio della sua vita pubblica: chi non ricorda la pagina densissima di significati della triplice tentazione di Cristo? Poi nei tanti episodi evangelici, nei quali il Demonio incrocia i passi del Signore e figura nei suoi insegnamenti? (P. es. Matth. 12, 43) E come non ricordare che Cristo, tre volte riferendosi al Demonio, come a suo avversario, lo qualifica «principe di questo mondo»? (Io. 12, 31; 14, 30; 16, 11) E l’incombenza di questa nefasta presenza è segnalata in moltissimi passi del nuovo Testamento. S. Paolo lo chiama il «dio di questo mondo» (2 Cor. 4, 4), e ci mette sull’avviso sopra la lotta al buio, che noi cristiani dobbiamo sostenere non con un solo Demonio, ma con una sua paurosa pluralità: «Rivestitevi, dice l’Apostolo, dell’armatura di Dio per poter affrontare le insidie del diavolo, poiché la nostra lotta non è (soltanto) col sangue e con la carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell’aria» (Eph. 6, 11-12).

E che si tratti non d’un solo Demonio, ma di molti, diversi passi evangelici ce lo indicano (Luc. 11, 21; Marc. 5, 9); ma uno è principale: Satana, che vuol dire l’avversario, il nemico; e con lui molti, tutti creature di Dio, ma decadute, perché ribelli e dannate (Cfr. DENZ.-SCH. 800-428); tutte un mondo misterioso, sconvolto da un dramma infelicissimo, di cui conosciamo ben poco.

IL NEMICO OCCULTO CHE SEMINA ERRORI

Conosciamo tuttavia molte cose di questo mondo diabolico, che riguardano la nostra vita e tutta la storia umana. Il Demonio è all’origine della prima disgrazia dell’umanità; egli fu il tentatore subdolo e fatale del primo peccato, il peccato originale (Gen. 3; Sap. 1, 24). Da quella caduta di Adamo il Demonio acquistò un certo impero su l’uomo, da cui solo la Redenzione di Cristo ci può liberare. È storia che dura tuttora: ricordiamo gli esorcismi del battesimo ed i frequenti riferimenti della sacra Scrittura e della liturgia all’aggressiva e alla opprimente «potestà delle tenebre» (Cfr. Luc. 22, 53; Col. 1, 13). È il nemico numero uno, è il tentatore per eccellenza. Sappiamo così che questo Essere oscuro e conturbante esiste davvero, e che con proditoria astuzia agisce ancora; è il nemico occulto che semina errori e sventure nella storia umana. Da ricordare la rivelatrice parabola evangelica del buon grano e della zizzania, sintesi e spiegazione dell’illogicità che sembra presiedere alle nostre contrastanti vicende: inimicus homo hoc fecit (Matth. 13, 28). È «l’omicida fin d a principio . . . e padre della menzogna», come lo definisce Cristo (Cfr. Io. 8, 44-45); è l’insidiatore sofistico dell’equilibrio morale dell’uomo. È lui il perfido ed astuto incantatore, che in noi sa insinuarsi, per via dei sensi, della fantasia, della concupiscenza, della logica utopistica, o di disordinati contatti sociali nel gioco del nostro operare, per introdurvi deviazioni, altrettanto nocive quanto all’apparenza conformi alle nostre strutture fisiche o psichiche, o alle nostre istintive, profonde aspirazioni.

Sarebbe questo sul Demonio e sull’influsso, ch’egli può esercitare sulle singole persone, come su comunità, su intere società, o su avvenimenti, un capitolo molto importante della dottrina cattolica da ristudiare, mentre oggi poco lo è. Si pensa da alcuni di trovare negli studi psicanalitici e psichiatrici o in esperienze spiritiche, oggi purtroppo tanto diffuse in alcuni Paesi, un sufficiente compenso. Si teme di ricadere in vecchie teorie manichee, o in paurose divagazioni fantastiche e superstiziose. Oggi si preferisce mostrarsi forti e spregiudicati, atteggiarsi a positivisti, salvo poi prestar fede a tante gratuite ubbie magiche o popolari, o peggio aprire la propria anima – la propria anima battezzata, visitata tante volte dalla presenza eucaristica e abitata dallo Spirito Santo! – alle esperienze licenziose dei sensi, a quelle deleterie degli stupefacenti, come pure alle seduzioni ideologiche degli errori di moda, fessure queste attraverso le quali il Maligno può facilmente penetrare ed alterare l’umana mentalità. Non è detto che ogni peccato sia direttamente dovuto ad azione diabolica (Cfr. S. TH. 1, 104, 3); ma è pur vero che chi non vigila con certo rigore morale sopra se stesso (Cfr. Matth. 12, 45; Eph. 6, 11) si espone all’influsso del mysterium iniquitatis, a cui San Paolo si riferisce (2 Thess. 2 , 3-12), e che rende problematica l’alternativa della nostra salvezza.

La nostra dottrina si fa incerta, oscurata com’è dalle tenebre stesse che circondano il Demonio. Ma la nostra curiosità, eccitata dalla certezza della sua esistenza molteplice, diventa legittima con due domande. Vi sono segni, e quali, della presenza dell’azione diabolica? e quali sono i mezzi di difesa contro così insidioso pericolo?

PRESENZA DELL’AZIONE DEL MALIGNO

La risposta alla prima domanda impone molta cautela, anche se i segni del Maligno sembrano talora farsi evidenti (Cfr. TERTULL. Apol. 23). Potremo supporre la sua sinistra azione là dove la negazione di Dio si fa radicale, sottile ed assurda, dove la menzogna si afferma ipocrita e potente, contro la verità evidente, dove l’amore è spento da un egoismo freddo e crudele, dove il nome di Cristo è impugnato con odio cosciente e ribelle (Cfr. 1 Cor. 16, 22; 12, 3), dove lo spirito del Vangelo è mistificato e smentito, dove la disperazione si afferma come l’ultima parola, ecc. Ma è diagnosi troppo ampia e difficile, che noi non osiamo ora approfondire e autenticare, non però priva per tutti di drammatico interesse, a cui anche la letteratura moderna ha dedicato pagine famose (Cfr. ad es. le opere di Bernanos, studiate da CH. MOELLER, Littér. du XXe siècle, I, p. 397 ss.; P. MACCHI, Il volto del male in Bernanos; cfr. poi Satan, Etudes Carmélitaines, Desclée de Br. 1948). Il problema del male rimane uno dei più grandi e permanenti problemi per lo spirito umano, anche dopo la vittoriosa risposta che vi dà Gesù Cristo. «Noi sappiamo, scrive l’Evangelista S. Giovanni, che siamo (nati) da Dio, e che tutto il mondo è posto sotto il maligno» (1 Io. 5, 19).

LA DIFESA DEL CRISTIANO

All’altra domanda: quale difesa, quale rimedio opporre alla azione del Demonio? la risposta è più facile a formularsi, anche se rimane difficile ad attuarsi. Potremmo dire: tutto ciò che ci difende dal peccato ci ripara per ciò stesso dall’invisibile nemico. La grazia è la difesa decisiva. L’innocenza assume un aspetto di fortezza. E poi ciascuno ricorda quanto la pedagogia apostolica abbia simboleggiato nell’armatura d’un soldato le virtù che possono rendere invulnerabile il cristiano (Cfr. Rom. 13, 1 2 ; Eph. 6, 11, 14, 17; 1 Thess. 5; 8). Il cristiano dev’essere militante; dev’essere vigilante e forte (1 Petr. 5, 8); e deve talvolta ricorrere a qualche esercizio ascetico speciale per allontanare certe incursioni diaboliche; Gesù lo insegna indicando il rimedio «nella preghiera e nel digiuno» (Marc. 9, 29). E l’Apostolo suggerisce la linea maestra da tenere: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci nel bene il male» (Rom. 12, 21; Matth. 13, 29).

Con la consapevolezza perciò delle presenti avversità in cui oggi le anime, la Chiesa, il mondo si trovano noi cercheremo di dare senso ed efficacia alla consueta invocazione della nostra principale orazione: «Padre nostro, . . . liberaci dal male!».

A tanto giovi anche la nostra Apostolica Benedizione.


Lettori e sostenitori del settimanale «La Voce»

Siamo lieti di salutare un folto pellegrinaggio, proveniente da diverse diocesi italiane, guidato da alcuni venerati Vescovi, organizzato per testimoniare al Papa la volontà di uno speciale impegno per l’incremento e la diffusione della buona stampa.

Diamo con gioia il nostro benvenuto a questi fratelli e figli, promotori e sostenitori dei mezzi di comunicazione cattolici, veicoli imprescindibili di formazione e di apostolato; tra questi, in particolare, i rappresentanti del settimanale La Voce che celebra il suo ventennale. Desideriamo incoraggiarvi caldamente a proseguire con tenacia nello sforzo di produrre e diffondere una stampa sana, sicura, che tenda ad arricchire l’uomo nei suoi valori spirituali profondi, siano essi culturali, o sociali, o religiosi; una stampa che sappia informare senza ingannare, distendere senza degradare, orientare senza violentare. La comunità cristiana ha bisogno di avere e di conservare strumenti propri nel settore della stampa: a livello nazionale prima di tutto; poi a livello diocesano.

Noi guardiamo con gioia, diletti figli, alla vostra opera in questo campo. Cercate di partecipare anche agli altri le vostre convinzioni, e di stimolare i cristiani a sostenere la buona stampa; in famiglia, in parrocchia, nell’ambiente di lavoro. È uno strumento che può avere un influsso incalcolabile, la stampa: può rovinare l’uomo, fino a distruggere in lui ogni tensione ai valori più nobili; ma può anche aiutarlo a salvarsi, a scoprire meglio la sua vocazione, a realizzare le proprie aspirazioni, fino a guidarlo all’incontro e al dialogo con Dio. Ambito immenso quello dell’apostolato dei mezzi di comunicazione sociale. Tutti possiamo prendervi parte. Rientra nelle esigenze del contributo che ogni cristiano deve dare alla costruzione di una società più umana, più fraterna, più pulita. Vi auguriamo di comprenderlo sempre meglio, e auguriamo che, per mezzo di voi, possano comprenderlo anche tanti altri fratelli.

Augurio che ci piace suggellare con una particolare Benedizione Apostolica.

Scuola professionale infermiere

Rivolgiamo ora ben volentieri una parola di vivo compiacimento al gruppo della Scuola Convitto Professionale Infermiere, dell’Ospedale Civile di Rieti, diretta e sostenuta dalle benemerite Religiose Figlie di San Camillo. Sappiamo che gli ottimi medici dell’Ospedale seguono con dedizione la Scuola; essa mira a dare alle giovani Infermiere una qualificata formazione professionale, che si vuole congiunta ad una profonda visione cristiana dei problemi, posti, talora anche in forma drammatica, dalla cura degli ammalati; ed ha preparato un bel numero di alunne, tra cui sono qui presenti le infermiere e caposala neodiplomate. Onore, dunque, e incoraggiamento a quanti provvedono un ausilio sociale di primo ordine alla cara terra reatina; e lode a voi, alunne, per il dono missionario che ci avete portato, e soprattutto per lo spirito con cui vi disponete all’esercizio della vostra missione: consideratela sempre così, come un alto servizio in favore dei fratelli, ricco di profondo contenuto umano, a cui l’amore di Cristo deve conferire il suo pieno valore. A voi e alle vostre famiglie la nostra Benedizione, che estendiamo al vostro venerato Vescovo e alle altre autorità religiose e civili, presenti a questo incontro.

 


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All’udienza generale Benedetto XVI nota come oggi il concetto di autorità è spesso collegato a quello di dominio, a causa delle dittature che nel secolo scorso “seminarono morte e terrore” e degli “abusi dell’autorità e al carrierismo” esistenti anche nella Chiesa. Nelle celebrazioni conclusive dell’Anno sacerdotale “mediteremo sulla conversione e sulla missione, sul dono dello Spirito Santo e sul rapporto con Maria”.
 
Città del Vaticano (AsiaNews 26-05-2010) – Neppure il Papa “può fare quanto vuole, al contrario” egli è “custode dell’obbedienza a Cristo, alla sua Parola” e “deve precedere nell’obbedienza a Cristo e alla sua Chiesa”. “Al di fuori di una visione chiaramente ed esplicitamente soprannaturale non è comprensibile il compito di governare proprio dei sacerdoti”. E’ stato lo stesso Benedetto XVI a dirlo ai quasi 40mila fedeli presenti in piazza san Pietro, nel discorso che ha dedicato alla “autorità” dei sacerdoti, ultimo compito dei presbiteri, illustrato oggi, dopo che nelle scorse settimane aveva parlato di quelli di educare e santificare il popolo di Dio.
 
Nella cultura odierna, ha notato, il concetto di autorità è spesso collegato con quello di dominio. Ciò è dovuto in parte “agli abusi dell’autorità e al carrierismo” esistenti anche nella Chiesa e soprattutto alle “esperienze culturali, politiche e storiche del recente passato”. “Soprattutto le dittature in Europa dell’Est e dell’Ovest nel XX secolo, hanno reso l’uomo contemporaneo sospettoso nei confronti del concetto di autorità. Un sospetto che, non di rado, si traduce nel sostenere come necessario l’abbandono di ogni autorità, che non venga esclusivamente dagli uomini e sia ad essi sottoposta”. Ma “proprio lo sguardo sui regimi che, nel secolo scorso, seminarono terrore e morte, ricorda con forza che l’autorità, in ogni ambito, quando viene esercitata senza un riferimento al trascendente, se prescinde dall’autorità suprema, che è Dio, finisce inevitabilmente per volgersi contro l’uomo. E’ importante allora riconoscere che l’autorità umana non è mai un fine, ma sempre e solo un mezzo e che, necessariamente ed in ogni epoca, il fine è sempre la persona, creata da Dio con la propria intangibile dignità e chiamata a relazionarsi con il proprio Creatore, nel cammino terreno dell’esistenza e nella vita eterna”.
 
Un’autorità che “”abbia come unico scopo servire il vero bene delle persone” è “un prezioso aiuto nel cammino verso la piena realizzazione in Cristo, verso la salvezza”. E’ questa l’autorità che la Chiesa è tenuta a esercitare, essa “è servizio” e viene esercitata “non a titolo proprio, ma nel nome di Gesù Cristo, che dal Padre ha ricevuto ogni potere in Cielo e sulla terra”. “Attraverso i pastori della Chiesa, infatti, Cristo pasce il suo gregge, lo guida, lo protegge, lo corregge, perché lo ama profondamente”. E’ lui che ha voluto che gli apostoli e i loro successori “partecipassero a questa sua missione di prendersi cura del popolo di Dio, di essere educatori nella fede, orientando, animando e sostenendo la comunità cristiana”.
 
“Se tale compito pastorale è fondato sul sacramento, tuttavia la sua efficacia non è indipendente dall’esistenza personale del presbitero. Per essere Pastore secondo il cuore di Dio occorre un profondo radicamento nella viva amicizia con Cristo, non solo dell’intelligenza, ma anche della libertà e della volontà, una chiara coscienza dell’identità ricevuta nell’ordinazione sacerdotale, una disponibilità incondizionata a condurre il gregge affidato là dove il Signore vuole e non nella direzione che, apparentemente, sembra più conveniente o più facile. Ciò richiede, anzitutto, la continua e progressiva disponibilità a lasciare che Cristo stesso governi l’esistenza sacerdotale”.“E anche il Papa – ha aggiunto – non può fare quanto vuole, al contrario il Papa è custode dell’obbedienza a Cristo, alla sua Parola” e “deve precedere nell’obbedienza a Cristo e alla sua Chiesa”. “Al di fuori di una visione chiaramente ed esplicitamente soprannaturale – ha proseguito – non è comprensibile il compito di governare proprio dei sacerdoti. Esso, invece, sostenuto dal vero amore per la salvezza di ciascun fedele, è particolarmente prezioso e necessario anche nel nostro tempo”.
 
Rivolgendosi quindi direttamente ai sacerdoti, Benedetto XVI li ha esortati: “non abbiate paura di guidare a Cristo ciascuno dei fratelli che Egli vi ha affidati, sicuri che ogni parola ed ogni atteggiamento, se discendono dall’obbedienza alla volontà di Dio, porteranno frutto; sappiate vivere apprezzando i pregi e riconoscendo i limiti della cultura in cui siamo inseriti, con la ferma certezza che l’annuncio del Vangelo è il maggiore servizio che si può fare all’uomo”.
 

Il Papa ha concluso con un invito ai fedeli “a pregare per me, successore di Pietro, che ho uno specifico compito nel governare la Chiesa di Cristo, come pure per tutti i vostri vescovi e sacerdoti. Pregate perché sappiamo prenderci cura di tutte le pecore, anche quelle smarrite, del gregge a noi affidato”. Ai sacerdoti a infine rivolto l’invito a partecipare alle celebrazioni conclusive dell’Anno sacerdotale, il prossimo 9, 10 e 11 giugno, quando “mediteremo sulla conversione e sulla missione, sul dono dello Spirito Santo e sul rapporto con Maria Santissima, e rinnoveremo le nostre promesse sacerdotali, sostenuti da tutto il Popolo di Dio”.

 

Hermann Hesse
dal libro “Narciso e Boccadoro”

“«Parlo sul serio. Non è il nostro compito quello d’avvicinarci, così come non s’avvicinano tra loro il sole e la luna, o il mare e la terra. Noi due, caro amico, siamo il sole e la luna, siamo il mare e la terra. La nostra mèta non è di trasformarci l’uno nell’altro, ma di conoscerci l’un l’altro e d’imparar a vedere ed a rispettare nell’altro ciò ch’egli è: il nostro opposto e il nostro complemento».”

“«Vedi», disse, «c’è un punto solo in cui ti sono superiore: io sono sveglio, mentre tu lo sei soltanto a mezzo, anzi a volte dormi del tutto. Per me, sveglio è chi conosce con l’intelletto e con la coscienza se stesso, le proprie forze intime e irrazionali, i propri istinti e le proprie debolezze, e sa tenerne conto. Questo tu devi imparare: ecco il senso che può esserci per te nell’avermi incontrato. In te, Boccadoro, lo spirito e la natura, la coscienza e il mondo dei sogni sono lontanissimi fra loro. Hai dimenticato la tua infanzia, e dalle profondità della tua anima essa ti cerca. Ti farà soffrire finché non le avrai dato ascolto…»”

“Ah, come tutto era incomprensibile e triste in fondo, anche se era bello! Non si sapeva nulla. Si viveva, si vagava sulla terra, si cavalcava per i boschi, e tante cose guardavano così provocanti e promettenti e ispiratrici di desiderio: una stella serotina, una campanula azzurra, un lago verde di canne, l’occhio di un uomo o di una mucca, e a volte era come se qualcosa di non mai veduto e pur da tanto tempo agognato dovesse avvenire a un tratto e un velo cadere; ma poi tutto passava e non avveniva nulla e l’enigma non era risolto e il segreto incanto non era rotto, e infine si diventava vecchi e si appariva scaltriti come padre Anselmo o saggi come l’abate Daniele e forse non si sapeva ancora nulla e si aspettava sempre, con l’orecchio teso.”

“Ah, per fare graziose figurine d’angeli od altri giochetti, sian pur carini, non valeva la pena di essere artisti. Per altri forse, per artigiani, per cittadini, per anime tranquille e soddisfatte poteva anche valer la pena, ma per lui no. Per lui arte e artisti non valevano nulla, se non ardevano come il sole e non avevano la potenza delle tempeste, se non portavano che piacere, gradimento, piccola felicità. Egli cercava altro. Dorare con lucente orpello una corona di Maria elegante con un merletto non era lavoro per lui, anche se ben pagato. Perché maestro Nicola prendeva tutte queste commissioni? Perché si teneva due aiutanti? Perché stava ad ascoltare per ore ed ore, con le misure in mano, quei senatori e quei preposti, quando gli ordinavano un portale o un pulpito? Per due ragioni, due ragioni meschine: perché ci teneva ad essere l’artista celebre e coperto di commissioni e perché voleva accumular denaro, denaro non per grandi imprese o grandi piaceri, ma denaro per sua figlia, ch’era già da un pezzo una fanciulla ricca, denaro per il corredo di lei, per colletti di pizzo e vesti di broccato, per un letto matrimoniale in noce, pieno di coperte e di lenzuola preziose! Come se la bella ragazza non potesse sperimentare l’amore altrettanto bene in un fienile qualsiasi!”

“Come già in tante altre giornate di cattivo umore, camminò a zonzo per la città. Vide le donne e le ragazze che andavano al mercato, sostò specialmente presso la fontana, osservando i mercanti di pesce e le loro donne vigorose , mentre offrivano in vendita e decantavano la loro merce, mentre estraevano dai loro tini i pesci freddi e argentei, alcuni dei quali si arrendevano quieti alla morte, con la bocca dolorosamente aperta e gli occhi d’oro fissi in un’espressione d’angoscia, altri invece si ribellavano furenti e disperati. Come già ante volte, lo prendeva una viva compassione per quelle bestie e una triste indignazione contro gli uomini; perché questi erano così ottusi e rozzi e inconcepibilmente stolti e miopi, perché tutti quanti non vedevano nulla, né i pescatori né le pescivendole né i compratori che tiravan sul prezzo; perché non vedevano quelle bocche, quegli occhi spaventati a morte e quelle code che si dibattevano violentemente, non vedevano quella tremenda lotta disperata e vana, quell’insopportabile trasformazione dei misteriosi animali così meravigliosamente belli, che rabbrividivano nell’ultimo lieve tremito sulla pelle morente e poi giacevano morti e spenti, lunghi e tirati, miseri pezzi di carne per la tavola del ghiottone soddisfatto? Nulla vedevano questi uomini, nulla sapevano e osservavano, nulla parlava loro! Che importava se un povero grazioso animale s’irrigidiva sotto i loro occhi, o se un maestro rendeva visibile in un volto santo tutta la speranza, tutta la nobiltà, tutto il dolore e tutta la cupa, stringente angoscia della vita umana, fino a darne il brivido?… Nulla vedevano,nulla li commoveva! Tutti erano soddisfatti o affaccendati, avevano interesse, avevano fretta, gridavano, ridevano, si ruttavano in faccia, facevan chiasso, facevan dello spirito, urlavano per due soldi, e tutti stavano bene, tutti erano in regola, soddisfattissimi di sé e del mondo. Porci erano, ah, molto peggio, molto più sozzi dei porci! Anch’egli, è vero, era stato spesso in mezzo a loro e s’era sentito contento fra i suoi simili ed aveva fatto la corte alle ragazze ed aveva mangiato ridendo senza orrore i pesci arrostiti. Ma poi sempre, talora tutt’a un tratto come per incanto, la gioia e la tranquillità l’avevano abbandonato e quell’illusione grassa e corpacciuta era caduta dal suo spirito, quella soddisfazione di sé, quell’importanza e quella calma stagnante dell’anima, e s’era sentito trascinare via nella solitudine e nella fantasticheria tormentata,spinto alla vita vagabonda, alla contemplazione del dolore, della morte, dell’incertezza di ogni attività, costretto a fissar gli occhi nell’abisso. Talvolta allora da quel suo disperato abbandono alla visione dell’assurdo e del pauroso gli era sbocciata una gioia improvvisa, un innamoramento appassionato, la voglia di cantare una bella canzone o di disegnare, oppure, odorando un fiore, giocando con un gatto, gli era tornato l’accordo ingenuo con la vita. Anche questa volta sarebbe tornato, domani o dopodomani, e il mondo sarebbe stato di nuovo buono e meraviglioso: fino a quando non ritornasse un’altra volta la tristezza, la fantasticheria tormentosa, l’amore opprimente e senza speranza per i pesci moribondi, per i fiori che appassiscono, l’orrore per il quieto vivere degli uomini, sozzo ed ottuso, per il loro star a bocca aperta e non vedere.”

“Non soggetti ad alcuno, dipendenti solo dalle vicende dell’atmosfera e della stagione, senza una mèta dinnanzi a sé, senza un tetto sopra di sé, in possesso di nulla, esposti a tuti gli eventi, i vagabondi conducono la loro vita semplice e coraggiosa, misera e forte. Sono i figli di Adamo, dell’uomo cacciato dal paradiso, e sono i fratelli degli animali, degl’innocenti. Dalla mano del cielo prendono ora per ora ciò che vien loro dato: sole, pioggia, nebbia, neve, caldo e freddo, benessere e indigenza; per loro non esiste il tempo, la storia, none esiste una mira, e neppur quell’idolo dello sviluppo e e del progresso, nel quale credono così disperatamente quelli che hanno una casa. Un vagabondo può essere delicato o rozzo, ingegnoso o melenso, coraggioso o pauroso, ma nel cuore è sempre un fanciullo, vive sempre come al primo giorno, avanti l’inizio di ogni storia universale, e la sua vita sarà sempre guidata da pochi, semplici istinti e bisogni. Può essere intelligente o sciocco, avere coscienza profonda della fragilità e caducità d’ogni vita, della povertà ed ansietà con cui ogni essere porta il suo tantino di sangue caldo attraverso il ghiaccio degli spazi, o solo seguire puerilmente e avidamente i comandi del suo povero stomaco… sempre egli è il contrapposto e il nemico del possidente e del sedentario, che lo odia, lo disprezza e lo teme, perché non vuole che gli si rammenti tutto questo: la fugacità d’ogni esistenza, il continuo avvizzire d’ogni vita, la morte gelida e inesorabile, che riempie intorno a noi l’universo.
La semplicità fanciullesca della vita girovaga, la sua origine materna, il suo staccarsi dalla legge e dallo spirito, il suo abbandonarsi al destino, la vicinanza segreta e costante della morte, avevano preso da un pezzo l’anima di Boccadoro, imprimendole il loro marchio profondo. Ma in lui albergavano anche lo spirito e la volontà, egli era un artista, e ciò rendeva la sua vita più ricca e più difficile. Solo la scissione e il contrasto rendono ricca e fiorente una vita. Che sarebbero la ragione e la temperanza senza la conoscenza dell’ebbrezza, che sarebbe il piacere dei sensi, se dietro di esso non stesse la morte, e che sarebbe l’amore senza l’eterna mortale ostilità dei sessi?”

La sete di libertà

Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei  coppieri che gliene versano quanta ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, sono dichiarati tiranni. E avviene pure che chi si dimostra disciplinato nei confronti dei superiori è definito un uomo senza carattere, servo; che il padre impaurito finisce per trattare il figlio come suo pari, e non è più rispettato, che il maestro non osa rimproverare gli scolari e costoro si fanno beffe di  lui, che i giovani pretendano  gli  stessi  diritti, le stesse  considerazioni  dei  vecchi, e questi, per non parer troppo severi, danno ragione ai giovani. In questo clima di libertà, nel nome della medesima, non vi è più riguardo per nessuno. In mezzo a tale licenza nasce e si sviluppa una mala pianta: la tirannia.

Platone